25 Aprile 2024, giovedì
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La bancarotta patrimoniale non esige la volontà di provocare il fallimento dell’impresa

La bancarotta patrimoniale non esige la volontà di provocare il fallimento dell’impresa, è quanto ribadito dalla Corte di Cassazione della recentissima sentenza del 21 febbraio scorso, la n. 8369.
La Suprema Corte, infatti, argomentando in ordine alla causalità e all’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale ha così ribadito:

“Sotto il primo aspetto, si rileva che all’imputato non è contestato di aver provocato, con gli atti distrattivi, il fallimento della società (ipotesi contemplata e autonomamente punita dall’art. 223, comma 2, della L.F.), bensì di aver distratto beni sociali. Tale condotta è punita dall’art. 216 L.F. indipendentemente dalle conseguenze che da essa sono derivate sulla vita della società, in quanto l’oggetto giuridico della bancarotta patrimoniale è la tutela del patrimonio sociale a garanzia della massa dei creditori, aventi interesse all’integrità del patrimonio sociale (Cass., S.U., n. 21039 del 26/5/2011; N. 16579 del 24/3/2010; N. 33380 del 18/7/2008; N. 38810 del 4/7/2006; N. 3615 del 30/11/2006). Ne consegue che ogni atto distrattivo, purché di significativa valenza, assume rilievo ai sensi dell’art. 216 I.fall. in caso di fallimento, indipendentemente dalla sua idoneità a provocare il fallimento sociale e indipendentemente dal fatto che il fallimento si verifichi, giacché questo non costituisce l’evento del reato. Dal punto di vista strutturale, infatti, il delitto in esame costituisce un reato di pericolo, rimanendo integrato dalla sola esposizione a rischio dell’interesse protetto (Cass., n. 30932 del 22/6/2010; N. 7212 del 26/1/2006; N. 7555 del 30/1/2006).
Sotto il secondo profilo, decisivo appare il rilievo che la bancarotta patrimoniale non esige affatto la volontà di provocare il fallimento dell’impresa, né l’intenzione di recare pregiudizio ai creditori (che rileva solamente nel riconoscimento di passività inesistenti), come sembra ritenere il ricorrente, bastando il dolo generico, dato dalla consapevole volontà dei singoli atti di sottrazione, occultamento o distrazione e, comunque, di quegli atti con i quali si viene a dare la patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell’impresa, con la consapevolezza di compiere atti che cagionano, o possono cagionare, danno ai creditori (Cass., sez. 5, 16/10/2008, n. 43216; Cass., 10/1/2008; Cass., 15/11/2007, n. 46921). Dolo che, nel caso di specie, è stato ragionevolmente ravvisato nella appropriazione di beni sociali.”.

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