29 Marzo 2024, venerdì
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Claudio Velardi: noi giornalisti siamo il passato

Quando, esattamente una settimana fa, s’era profilata la decisione di Matteo Renzi, segretario Pd, di regolare i conti con Enrico Letta, Claudio Velardi aveva suggerito, via Twitter, d’essere più prudente, d’evitare di passar per ribaltonista impenitente. «Senza preoccuparsi», aveva scritto nel suo blog, «degli stupidi che esulteranno, dei giornali che diranno ‘ha vinto Letta’, dei cento critici col ditino alzano. Tanto passeranno due-tre mesi e il governo, incolore e inodore, si sbriciolerà da solo».
Domanda. Non l’ha ascoltata, Velardi…
Risposta. Non ha ascoltato me come i tanti, che suggerivano prudenza. Ma qui sta la differenza: noi commentiamo, lui è il leader, lui sceglie, lui fa. Per fortuna. Anche col Pd era stato lo stesso, ricorda?
D. Come no? Proprio da queste colonne, lei l’aveva scongiurato di tenersene alla larga…
R. Non ci è stato a sentire. E ha avuto ragione.
D. Eppure c’è stata un’ondata di indignazione, più o meno strisciante, per questa staffetta. Soprattutto fra i suoi, fra i renziani intendo. Oggi (ieri per chi legge, ndr), vedendolo al Quirinale, quel sentimento è già scemato. Non le pare?
R. L’argomento di Renzi sulla inevitabilità di questo percorso accelerato è del tutto ragionevole: non avrebbe potuto fare diversamente. Attendere avrebbe logorato lui ma anche il Partito democratico, avrebbe compromesso tutto. Il sindaco di Firenze ha fatto una forzatura pienamente comprensibile nell’universo delle persone normali. Incomprensibile, invece, in quello, depresso, del popolo democrat, frustrato da decenni di incapacità dei gruppi dirigenti a mettere in campo politiche forti e vere…
D. Che cosa ha generato?
R. Un sentimento narcisistico di autocommiserazione: il popolo piddino ama autocommiserarsi. Però guardi che, già a quest’ora, molti mugugni sono rientrati. Perché emerge la sostanza dell’operazione che Renzi vuol fare nei prossimi quattro mesi: clamorosa, financo improbabile. In 120 giorni vuol mettere le mani su riforme istituzionali (legge elettorale, Titolo V, Senato), lavoro, burocrazia e fisco. Quello diventa l’ordine del giorno, quella l’agenda.
D. Improbabile, nel senso di impraticabile?
R. Ma no, nel senso che non si è mai pensato una cosa del genere. Neanche Mandrake. Non saranno riforme realizzate: Renzi farà decreti, aprirà dossier. Ma solo questo, come si dice, vale prezzo del biglietto.
D. Anche il suo discorso all’uscita dal colloquio col capo dello Stato ha colpito: lineare, sereno..
R. Eravamo abituati a persone che uscivano da quei colloqui e facevano discorsi paludosi, chiacchiere incomprensibili. E invece lui, butta là «quattro cosucce» di quella portata.
D. Non tradiva un filo di emozione…
R. Esatto. Nemmeno Silvio Berlusconi, a cui l’accostano, ci riusciva…
D. In che senso?
R. Il Cavaliere, quando le sparava grosse, come nell’occasione del milione di posti di lavoro, tradiva l’ansia tipica del venditore, tutta finalizzata alla conclusione dell’affare, che ci mette una grande enfasi nell’esaltare la propria mercanzia ma che ha la preoccupazione che l’acquirente non accetti. Renzi ha una comunicazione che potrebbe apparire banale tanto è normale e non enfatica. La gente, abituata allo «sperpetuo» degli impegni solenni mai attuati, lo ascolta e comincia a dire «oh stai a vedere che questo lo fa davvero».
D. Semmai, è il mondo dell’analisi politica e del giornalismo che pare, in questi giorni, in preda a una strana eccitazione negativa. C’è chi sabato ha fatto la ola al reinvio dell’incarico a oggi, chi legge fra le righe dei quirinalisti fastidi e risentimenti del Colle…
R. Il nostro universo, quello dei giornalisti, assume queste posizioni perché deve giustificare la propria incapacità a interpretare questo leader che è sempre un passo avanti e che spiazza tutti sempre. Apparteniamo all’Italia stanca, sfiduciata, illividita da questo ventennio di cose non fatte. Lui, Renzi, vive di slancio, di fiducia, di follia. È al di là del guado. Si tratta proprio di una dimensione antropologica diversa.
D. Giorgio Napolitano punterà su Renzi o serberà ancora qualche riserva?
R. Nella sua infinita saggezza, il presidente della Repubblica ha determinato la svolta, invitando a cena il segretario Pd e parlandoci per due ore, due ore e mezza. Così facendo ha dato messaggio chiarissimo. Lui vorrà vedere riforma elettorale e poi godersi il meritato riposo. Non è certo tipo che vuole restare lì.
D. Qualcuno considera Renzi internazionalmente debole. S’è ironizzato sul New York Times che l’ha definito «sindaco di Napoli». Le cancellerie lo ignorano, s’è detto.
R. Balle. Se così fosse stato, perché Angela Merkel l’ha voluto conoscere a luglio?
D. Quali sono i pericoli all’orizzonte?
R. Non verranno dai partiti che, ormai, sono cani morti. Sì, ci può essere il Clemente Mastella di turno…
D. E chi sarebbe?
R. Pippo Civati, no? Quella dei dieci senatori che starebbero con lui è la tipica dichiarazione mastelliana. Insomma roba di poco conto. Poi, va beh, Renzi si dovrà tenere Angelino Alfano, e concedergli qualcosa ma, insomma, la durata della legislatura è l’unica garanzia di sopravvivenza per il Nuovo centrodestra e i suoi parlamentari. Il vero pericolo è un altro…
D. E cioè?
R. Sarà la resistenza del sistema, della burocrazia…
D. Che Renzi, non a caso, ha inserito nella quattro riforme da far partire subito…
R. Quella sarà la vera prova perché la politica, ormai, conta zero; conta la tecnostruttura che non ti consente di cambiare, conta quel potere sordo e grigio. Perché, quando il premier, farà i decreti, non dovrà temere gli agguati della politica quanto le inadempienze della burocrazia.

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