25 Aprile 2024, giovedì
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Italia, percorsi per uscire dall’Afghanistan

Oltre a costituire un possibile punto di svolta per l’Afghanistan e per l’intera regione centroasiatica, la fine della missione Isaf (International Security Assistance Force), fissata a dicembre di quest’anno, rappresenta una difficile sfida per gli stati che vi hanno preso parte.

Alle difficoltà che un’operazione del genere comporta si aggiungono le incognite derivanti da una situazione politica estremamente fluida come quella afghana. Nel caso dell’Italia, poi, il “caso Shalabayeva” potrebbe complicare ulteriormente il piano per il ritiro.

Da la Marmora a Camp Arena
In occasione del vertice interministeriale della Nato tenutosi il 4 e 5 giugno 2013 a Bruxelles, i paesi alleati si erano impegnati a rimanere in Afghanistan anche dopo il 2014 nell’ambito della missione Resolute Support, che dovrebbe coinvolgere un totale di 10-12 mila uomini e avere come principale obiettivo quello di continuare ad addestrare ed assistere le forze di sicurezza afghane, ma senza compiti di combattimento.

Si tratterebbe di una missione più limitata rispetto a Isaf, ma fondamentale per garantire il corretto utilizzo dei fondi che nei prossimi anni verrebbero stanziati per l’Afghanistan, in particolare per l’equipaggiamento e gli stipendi delle forze di sicurezza afgane (circa 4,1 miliardi di dollari l’anno).

Tuttavia, la mancata firma dell’Accordo bilaterale di sicurezza (Bilateral secutiy agreement, Bsa) con gli Stati Uniti da parte del presidente Hamid Karzai sta complicando i piani della comunità internazionale.

Attualmente, l’Italia schiera circa 2mila uomini in Afghanistan. Il 28 gennaio, la base operativa avanzata La Marmora di Shindand, ultima delle Forward Operating Base (Fob) italiane è stata ceduta definitivamente alle forze di sicurezza afghane, nell’ambito del passaggio di consegne della responsabilità della sicurezza da Isaf alle autorità locali.

Essa diverrà la sede della brigata aerea della nascente aeronautica militare afgana di cui gli italiani, con 35 istruttori dell’aeronautica Militare, stanno preparando piloti e controllori di volo.

Con la cessione della Marmora, la Transition Support Unit Center si è rischierata interamente a Camp Arena (Herat), sede del Regional Command West sotto il comando dell’Italia. Nei piani, l’Italia dovrebbe mantenere una presenza di circa 800-900 soldati da impiegare nell’ambito della Resolute Support, per una spesa annua stimata in 200 milioni di euro

Secondo fonti della difesa, “le spese prevedibili a regime (800-900 unità) si attestano intorno ai 250-300meuro. Dipende comunque dal tipo di missione che verrà indicata (non combat) per cui presenta un certo grado di variabilità”. Tuttavia, un mancato accordo tra Washington e Kabul sul Bsa si tradurrebbe nell’inevitabile ritiro di tutto il contingente Isaf con conseguenze negative dalla portata imprevedibile sulla stabilità del paese.

Ritiro truppe
Il ritiro dall’Afghanistan rappresenta un’operazione estremamente delicata. Si tratta, infatti, di un paese senza sbocchi sul mare, situato in un complesso contesto regionale, se si considerano i difficili rapporti tra Kabul e i suoi vicini. Ogni azione deve essere pianificata con la massima attenzione e decisa di concerto con gli altri paesi Nato. Un ritiro disordinato e male organizzato, infatti, esporrebbe a notevoli rischi chi restasse eventualmente indietro.

Sinora, l’attività di redeployment ha comportato il rientro in Italia di oltre mille soldati e un totale di quasi tremila metri lineari di carico, comprese centinaia di mezzi mobili campali e veicoli tattici.

Il principale responsabile della esecuzione del piano di ritiro è l’Italfor, l’unità logistica del contingente italiano, guidata dal colonnello Riccardo Sciosci che ricopre anche la carica di Comandante logistico nazionale. I mezzi e gli uomini sino a oggi movimentati sono stati rimpatriati mediante ponti aerei da Herat a Dubai e da lì imbarcati e trasferiti in Italia. Il trasporto dei materiali è stato concesso in appalto a una ditta ucraina che dispone di vettori aerei idonei, per un costo di circa 70mila euro per ogni volo di andata e ritorno.

Per quanto riguarda il rientro dei mezzi e degli uomini ancora di stanza in Afghanistan, le opzioni sul tavolo dei decisori italiani sono essenzialmente tre.

La prima, quella del ponte aereo sino a un porto del Golfo (Abu Dhabi piuttosto che Dubai) e il successivo imbarco e trasferimento in Italia, è quella che pone meno interrogativi dal punto di vista politico e della sicurezza. Si tratta, tuttavia, anche dell’opzione più onerosa dal punto di vista economico. Pertanto, è probabile che venga utilizzata per il rimpatrio dei materiali di cui le forze armate italiane potrebbero necessitare nel breve periodo, oltre che per il ritiro dei soldati (per il quale è percorribile anche la scelta di voli commerciali).

Riflessi caso Shalabayeva
La seconda opzione è rappresentata dalla cosiddetta Northern Distribution Network (Ndn), rete che si estende dall’Uzbekistan alle repubbliche baltiche, passando per il Kazakhstan e una parte della Russia, in prevalenza sfruttando il trasporto ferroviario.

Il costo del trasporto di un container attraverso la Ndn sarebbe compreso tra i 10 e i 12mila euro. Per l’Italia si tratterebbe di un’opzione importante soprattutto per quanto riguarda il rimpatrio di mezzi e materiali di cui le forze armate non necessitano nel breve periodo. Tuttavia, il deterioramento dei rapporti tra Italia e Kazakhstan provocato dal “caso Shalabayeva” sta avendo riflessi negativi sulla pianificazione del ritiro italiano dall’Afghanistan.

A febbraio 2013, infatti, l’allora ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, e il suo corrispettivo kazako avevano siglato un accordo per il transito del personale e dei mezzi militari italiani schierati in Afghanistan che prevedeva l’uso gratuito della base aerea di Shymkent. Tale accordo risulta al momento “congelato”, per stessa ammissione dell’attuale ministro della Difesa, Mario Mauro.

Secondo fonti interne al Ministero della Difesa, i contatti con la controparte kazaka sarebbero stati già riallacciati e vi sono buone probabilità che l’intera faccenda si risolva nei prossimi mesi. Nel migliore dei casi, la vicenda Shalabayeva potrebbe aver provocato solamente un rallentamento nel processo delle autorizzazioni. Tuttavia, il condizionale è d’obbligo, così come l’individuazione di opzioni alternative.

La terza via percorribile per le operazioni di retrograde è quella del trasporto via terra attraverso il territorio pakistano e il successivo imbarco dei materiali al porto di Karachi. In questo caso, oltre a preoccupazioni relative alla sicurezza, esistono incognite di carattere politico. La vie di accesso, infatti, vengono spesso bloccate da gruppi di dimostranti pakistani, sostenuti nelle loro iniziative dal governo locale del Khyber Pakhtunkhwa.

Qualunque sia l’opzione scelta, è possibile che una parte del materiale venga lasciata in dotazione alle forze armate afghane, elemento suscettibile di favorire, tra le altre cose, un più agevole accesso sul mercato locale da parte delle imprese italiane.

Verso le elezioni
Le incognite relative al ritiro dall’Afghanistan delle truppe italiane e di quelle degli altri alleati riflettono la grande incertezza che avvolge il futuro del paese. Il 2 febbraio ha preso ufficialmente il via la campagna per le presidenziali, ma è difficile che si aspetti di conoscere l’esito delle elezioni per decidere le sorti della pianificata missione Resolute Support e degli uomini e dei mezzi ancora impiegati in Afghanistan.

In caso di ballottaggio, infatti, i tempi potrebbero allungarsi sino a luglio, rendendo impossibile un’adeguata pianificazione delle operazioni. Una eventuale mancata firma del Bsa da parte di Karzai prima delle elezioni potrebbe segnare, dunque, la fine dell’impegno della Nato in Afghanistan, con conseguenze che oggi è difficile prevedere.

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