Attilio Manca aveva 34 anni, era un medico, un urologo. Aveva studiato a Roma e poi a Parigi, dove aveva appreso le tecniche più innovative per operare il tumore alla prostata, per poi finire a lavorare all’ospedale Belcolle di Viterbo. Un giorno Attilio non si presenta al lavoro. È il 12 febbraio 2004. I suoi colleghi lo troveranno riverso sul letto in una pozza di sangue. Dopo dieci anni, per la prima volta, abbiamo recuperato nel fascicolo processuale le foto del cadavere, così come sarebbe stato ritrovato. Sono foto impressionanti: faccia in giù sul letto, il naso appare deviato e il volto è una maschera di sangue. Lungo il corpo molte ecchimosi (i lividi vengono solo da vivi!) e macchie ipostatiche (che invece compaiono sui cadaveri). Sul polso c’è una ferita e lo scroto, gonfio in modo innaturale, presenta delle lesioni, come se avesse ricevuto dei calci. LA PROCURA di Viterbo non ha dubbi: si tratta di un’over – dose. In bagno e nel cestino della cucina sono state ritrovate infatti due siringhe con un mix letale di eroina e tranquillanti e tanto basta per archiviare il caso e derubricare la fine di un brillante medico come quella di un tossico, probabilmente suicida. Un tossico che non aveva però vene indurite, infatti presentava un solo segno di agopuntura. Dove? Sul braccio sinistro. Attilio Manca era completamente mancino e nessuno, nemmeno un chirurgo esperto, riuscirebbe in questo intento. Eppure il caso è chiuso, ma tante cose non tornano. È quello che mi dicono anche i due periti di Medicina legale, a cui abbiamo fatto vedere le foto. Quel naso che se ne va da un’altra parte e quei segni rossi sullo scroto potrebbero raccontare un’altra storia, ma il referto dell’autopsia è talmente lacunoso che non è possibile farsi un’idea più precisa. Tante cose ancora non tornano. Quando ci si inietta una dose da cavallo, come quella che ha ucciso Attilio, non si arriva nemmeno a staccarsi la siringa dal braccio, si muore subito. Per la Procura, Attilio invece non solo avrebbe addirittura avuto il tempo di rimettere il tappo alle siringhe, ma avrebbe anche lavato il cucchiaino con cui avrebbe sciolto l’eroina e fatto poi sparire il resto dell’occorrente. Una ricostruzione poco verosimile, che viene giustificata dagli inquirenti con il fatto che il medico, proprio per la sua professione, era un maniaco dell’igiene. Insomma, un drogato o un aspirante suicida avrebbe avuto tempo e lucidità per dar sfogo a preoccupazioni igieniche? E le impronte sulle siringhe? Non esistono. Anche qui la spiegazione della Procura lascia perplessi: sono oggetti troppo piccoli, difficile rilevarle. Forse Attilio Manca si è davvero autoiniettato la dose che lo avrebbe ucciso. O forse no. Per la famiglia e per gli avvocati, Antonio Ingroia e Fabio Repici, si tratta di omicidio. Un delitto che sarebbe stato insabbiato con indagini approssimative per coprire tutta un’altra storia. Una storiache inizia altrove, in Sicilia, a Barcellona Pozzo di Gotto, dove Attilio Manca è cresciuto. Una cittadina a 40 chilometri da Messina, in quella che un tempo era considerata la provincia “babba”, ingenua, perché la mafia lì non c’era o era debole. Poi i fatti hanno smentito questa leggenda, tanto che negli anni 90 la città era soprannominata Barcellona Pozzo di sangue, per i tanti morti di mafia che ci sono stati. È qui che mafia, servizi deviati e massoneria hanno trovato un ospitale terreno d’incontro. È qui che, secondo un’ipotesi investigativa, il destino di Attilio Manca, urologo esperto di operazioni alla prostata, si sarebbe incrociato con quello di un paziente pericoloso, ammalato proprio di tumore alla prostata: Bernardo Provenzano, che avrebbe trascorso una parte della latitanza proprio a Barcellona, nel 2003, sia prima che dopo l’ormai nota operazione a Marsiglia. Esiste un’informativa dei Ros (numero di protocollo 50/3 13-1-2005), in cui si parla della “presunta presenza di Bernardo Provenzano all’interno del convento di S. Antonio da Padova di Barcellona P.G.”. Difficile però ottenere informazioni, i cinque frati minori che c’erano in quel periodo sono stati tutti trasferiti. Secondo alcune testimonianze, raccolte dal giornalista Luciano Mirone, Attilio avrebbe visitato il boss proprio in queste zone. LE COINCIDENZE inquietanti non sono finite. Provenzano viene operato di tumore alla prostata il 23 ottobre 2003, presso l’ospedale Ciutad di Marsiglia. Per l’equipe medica Binnu si chiama Gaspare Troia. In quegli stessi giorni Attilio, invece di scendere in Sicilia come era solito, chiama sua madre e le dice di trovarsi nel sud della Francia “per vedere un intervento”. Un’informazione che alla signora Manca non sembra importante, fino a quando Ciccio Pastoia, uomo di Provenzano, durante un’intercettazione ambientale in carcere racconta che a operare il suo capo è stato un urologo siciliano. È il 2005 è la madre implora la Procura di Viterbo di cercare quella telefonata che le fece il figlio nei tabulati. Ma nessuno cerca un riscontro alle sue parole. Perché? Anzi Sebastiano Gava, l’allora capo della squadra mobile di Viterbo, si sbriga a firmare un verbale in cui si dice che nel periodo in cui Provenzano è stato a Marsiglia (dal 22 ottobre al 4 novembre 2003), Manca era regolarmente in servizio a Viterbo. Dopo dieci anni, il programma Chi l’ha visto ha trovato un documento che smentisce quanto affermato dal poliziotto e cioè il foglio di presenze dell’ospedale Belcolle di Viterbo, che dimostra che Attilio in quei giorni non è sempre stato presente in ospedale. Sebastiano Gava è lo stesso che firmò i verbali falsi che avrebbero dovuto giustificare la macelleria messicana nella scuola Diaz durante il G8 e per questo ora è agli arresti domiciliari. Nell’inchiesta sulla strana morte di Attilio Manca si mischiano approssimazioni, lacune e presunti depistaggi. Come accadde in un’altra vicenda, quella di Binnu. Da chi è stata coperta per più di 40 anni la latitanza di Bernardo Provenzano? La sua era una “latitanza di Stato”? E se fosse vero che Attilio ne è stato testimone nel ruolo di medico, quali segreti e chi avrebbe dovuto coprire?