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A proposito di smaltimento di rifiuti e danni ambientali – Cass. Pen. 15495/2012

Nel caso all’attenzione della Suprema Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno ritenuto non fondato il ricorso proposto contro la sentenza emessa dal Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Maglie, il quale ultimo aveva affermato la colpevolezza di Congedo Rocco e Fuso Vincenzo in ordine al reato (capo a) di cui agli art. 110 c.p. e 256, comma 1 lett. a) e comma 2, del D. Lgs. n. 152/2006, loro ascritto per avere, il primo quale amministratore unico della società “Congedo Costruzioni S.r.l.” ed il secondo, titolare della ditta denominata “Fuso Scavi”, effettuato attività di raccolta, trasporto ed abbandono di rifiuti speciali non pericolosi in assenza delle prescritte autorizzazioni.
E’ stato accertato in punto dì fatto dai giudici di merito che sul fondo di proprietà di tale Cogli Egidio era stato abbandonato materiale di risulta proveniente da demolizioni edili e che lo stesso era riconducibile a lavori di ristrutturazione eseguiti dalla ditta del Congedo su un immobile di proprietà di tale De Pescali Oronzo. Il Congedo Rocco aveva affidato i rifiuti provenienti da demolizione alla ditta del Fuso, priva della prescritta autorizzazione per il loro trasporto e smaltimento, e quest’ultimo aveva abbandonato i predetti rifiuti nel fondo del Cogli.
Sulla base di tali risultanze i giudici di merito hanno condannato i predetti Congedo e Fuso alla pena ritenuta di giustizia per il reato loro ascritto al capo a) della rubrica, oltre al risarcimento dei danni in favore del Cogli, costituitosi parte civile, mentre hanno assolto il De Pascali dalla medesima imputazione per non aver commesso il fatto. Hanno inoltre dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati in ordine al reato di cui all’art. 635 c.p. (capo b) per mancanza di querela.
L’intervento della Suprema Corte giunge a far luce in un momento ed in una vicenda alquanto torbida, visto anche l’interesse mediatico che il problema dello smaltimento dei rifiuti ha sollevato. La polemica non è nuova, tant’è che con delibera del 27 marzo 2007 il Parlamento Italiano ha provveduto ad effettuare un modifica al codice penale, introducendo al Titolo VI del Libro II, il Titolo VI-bis, dedicato ai reati contro l’ambiente.
L’orientamento della Suprema Corte, (si veda : Cass.Pen., Sez.III, sent. 29 Maggio 2013, n. 23091; Cass. Pen., Sez. III, sent.16 maggio 2013, n. 21147; Cass. Pen., Sez. III, sent. 16 maggio 2013, n. 21138; Cass. Pen., Sez.III, sent. 26 febbraio 2013, n. 9214; Cass. Pen., sez. III, sent. 4 dicembre 2012, n. 46835; Cass. Pen., Sez. III, sent. 8 novembre 2012, n. 43148;) si è ben consolidato negli anni, arrivando così gli ermellini a stabilire in modo perentorio la responsabilità di coloro che si avvalgono di terzi per lo smaltimento dei rifiuti, omettendo di esercitare il controllo voluto dall’art. 2049 cod. civ., con la precisazione che mentre chi sversa rifiuti è sempre responsabile del danno prodotto all’ambiente, chi ne autorizza lo smaltimento senza le dovute precauzioni risponde quanto meno per culpa in eligendo o in vigilando, fuori delle ipotesi di concorso, di cui la Cassazione non esclude la ricorrenza.
Hanno precisato i giudici di merito che «Il danno subito dal privato quale conseguenza delle violazioni in materia di disciplina dei rifiuti (in specie violazione dell’art. 256 del D. Lgs n. 152/2006) è risarcibile secondo gli ordinari criteri ed i principi generali in materia di danni (art. 2043 c.c. e 185 c.p., in proposito si veda, Cass. sez. III, 22/04/1992 n. 7567, Abortivi). Pertanto, a nulla rileva la declaratoria di improcedibilità dell’azione penale per il reato di cui all’art. 635 c.p.». Nel caso di specie, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che «In materia di smaltimento di rifiuti l’affidamento dei rifiuti a terzi, comporta per il soggetto che conferisce l’incarico puntuali obblighi di accertamento, con la conseguente culpa in eligendo o in vigilando per le operazioni eseguite dal soggetto al quale i rifiuti sono stati conferiti (Cass.. sez. III, 19/12/2007 n. 6101 del 2008, Cestaio; Cass. sez. III, 01/04/2004 n. 21588, Ingrà e altri).
A proposito di reati di così elevato allarme sociale, quale quello dello sversamento illecito dei rifiuti, si riporta uno studio, noto alla cattedra di diritto pubblico dell’Università Tor Vergata di Roma, condotto dall’avvocato Veneto D’Acri ( I danni punitivi : dal caso Philip Morris alle sentenze italiane i risarcimenti concessi dai tribunali contro le aziende ed i soggetti che adottano comportamenti illeciti – Veneto D’Acri – EPC Libri), nel quale, l’autore auspica, anche nel nostro ordinamento, il riconoscimento dei punitive damage ossia, dei danni punitivi, istituto che dà luogo a risarcimenti finalizzati a punire i responsabili di fatti illeciti particolarmente odiosi e riprovevoli, per prevenire il ripetersi di comportamenti analoghi e, sempre più spesso, con lo scopo di azzerare i guadagni ed i successi economici che operatori professionali scorretti e senza scrupoli conseguono illecitamente. Sull’ammissibilità dei danni punitivi nel nostro ordinamento sia la dottrina, sia la giurisprudenza sono divise, sia perché essendo l’istituto de quo estraneo alla nostra cultura giuridica, mancano gli strumenti necessari per il suo riconoscimento, sia perché la loro ammissibilità diverrebbe possibile solo a seguito di una decisa apertura verso altri orizzonti. Se debba ammettersi l’esistenza di un simile istituto è compito del potere legislativo, in primis e della magistratura in secondo luogo, qualora la strada si riveli effettivamente percorribile.
Nel caso all’attenzione della Suprema Corte, di certo non ricorrono gli estremi per la configurazione dei danni punitivi, difettando il procedimento di una o più parti lese. In ogni caso, si ritiene opportuno segnalare lo studio condotto da certa dottrina a proposito di una sentenza assai importante. Il caso che ha fatto epoca è quello della Philip Morris, multinazionale del tabacco condannata ad un maxirisarcimento di 73 miliardi e 960 milioni di dollari. E’ la condanna più importante mai pronunciata negli States in tema di punitive damage. Nel saggio l’autore affronta il problema della ammissibilità dei danni punitivi nel sistema giustizia italiano, dove a causa del dettato costituzionale, non è possibile pensare ad una tutela più diretta ed immediata dell’interessato, riconoscendogli al tempo stesso un efficace strumento di attuazione dei suoi diritti, salvo una revisione completa della Costituzione. Il riconoscimento del diritto alla salute, cui fa espresso richiamo l’art. 32 Cost. e più in particolare la legge 30 luglio 1998 n. 281, infatti, difetta di un definito interlocutore, essendo al momento configurabile, come rimedio, il solo ricorso alla class action, al fine di dar concreta attuazione ad una domanda la cui prova risulta ardua in dibattimento.
Il caso Philip Morris, vicino quanto a serietà alla tematica dello sversamento illecito dei rifiuti, in particolar modo per quanto riguarda gli effetti dannosi sulla salute pubblica, ha rappresentato nella coscienza giuridica occidentale una svolta epocale, la cui ammissione rende doverosa una riflessione sull’ ammissibilità, nel nostro ordinamento, dei danni punitivi anche perché – come fa notare attenta dottrina – è solo attraverso il riconoscimento dei danni punitivi che in un ordinamento civile si potranno perseguire esigenza di giustizia più vicine ai problemi dei cittadini. In Italia, lo sversamento illecito di rifiuti, vede perpetrarsi da diversi anni uno scempio ambientale ai danni della popolazione colpita, ma come ha affermato la Cassazione per ammettere il riconoscimento dei danni punitivi è necessario innanzitutto dare prova certa del danno e quindi del nesso eziologico tra causa ed effetto, ossia tra fattore patogeno ed insorgenza della malattia, avuto anche riguardo alle concause di cui parla l’art. 41 del codice penale, che non possono essere trascurate.

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