29 Marzo 2024, venerdì
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Il pugno di Teheran che diventa una stretta di mano

Una serie di limitazioni e sospensioni nell’industria nucleare iraniana a fronte di un alleggerimento delle sanzioni: questo quanto prevede l’accordo raggiunto a Ginevra fra l’Iran e i 5+1 (Usa, Regno unito, Francia, Cina, Russia e Germania).

Fra sei mesi i negoziatori si riuniranno per valutare l’andamento del compromesso e decidere come fare per raggiungere un accordo di lungo periodo complessivo in grado di garantire la natura pacifica del programma nucleare iraniano. Il risultato delle negoziazioni di Ginevra è stato valutato come un errore storico dal primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu. Se funzionerà sarà invece una svolta storica.

Normalizzazione
Difficile dire ora quale sarà la sorte di questo primo accordo. Non si può mancare tuttavia di rilevare la sua importanza politica e la sua influenza sull’evoluzione delle relazioni fra Iran e Stati Uniti.

L’inimicizia in corso dal ’79 ha senza dubbio spinto Teheran verso una politica estera più radicale di quella che avrebbe condotto in una situazione di relazioni più normali, anche se non necessariamente amichevoli. Ma ha lungamente radicalizzato anche la politica degli Stati Uniti, i quali, quando il presidente Mohammad Khatami fece dei passi decisamente collaborativi, non raccolsero i gesti dei riformisti allora al potere in Iran.

Una normalizzazione fra Teheran e Washington non potrebbe che contribuire alla normalizzazione della regione. Le sanzioni hanno morso e l’estremismo religioso e politico dell’ex presidente Mahmoud Ahmedinejad ha creato danni tali che è urgente, necessario e inevitabile che il nuovo governo vi ponga fine.

Gli Stati Uniti hanno avuto il merito di capire che il pugno iraniano si stava aprendo e di crederci. Era stato il presidente Barack Obama a chiedere all’inizio del suo primo mandato che l’Iran “aprisse il suo pugno”, senza però riceverne alcuna risposta positiva. Questa è infine arrivata dal presidente Hassan Rouhani. Dando una volta tanto prova di leadership, Obama ha quindi guidato i paesi occidentali ad aprire il loro pugno.

Prima che i negoziati iniziassero ci sono stati quattro incontri segreti tra Stati Uniti e Iran. Questo mostra una precisa volontà delle due parti di creare e cogliere l’occasione. Obama è andato avanti in una situazione di appoggio solo moderato nel suo paese, di franco sostegno da parte degli alleati europei, di forti difficoltà invece da parte degli alleati arabi, in particolare l’Arabia Saudita, e di martellante critica da parte di Israele.

Opposizione
Quali conseguenze possono venire da questa opposizione da parte degli alleati regionali degli Usa? In Israele il dibattito sull’attacco alle installazioni nucleari dell’Iran dura da tempo. L’idea degli estremisti al governo di condurlo anche da soli, cioè senza e contro gli Usa, ha avuto da parte dell’establishment militare dei servizi segreti e, in parte, anche dall’establishment civile del paese una risposta nettamente negativa. È improbabile che Netanyhau e Avigdor Lieberman riescano a superare questa opposizione e andare avanti. Israele, almeno per ora, continuerà a stare alla finestra.

L’Arabia Saudita non può che vedere confermate e aggravate le sue preoccupazioni emerse quando Obama ha accettato di rinunciare all’intervento militare che aveva promesso di lanciare al regime siriano di Bashar al Assad in cambio dell’accordo di disarmo chimico. In questa mossa Riyadh ha visto non solo l’indebolimento dell’opposizione e dei sunniti in Siria, ma ha anche vividamente intravisto il rafforzamento dell’Iran e degli sciiti. Quando gli approcci diplomatici di Rouhani sono iniziati, i dirigenti del Regno hanno anche capito che l’intesa era possibile.

Alleanze alla prova
Non c’è dubbio che, malgrado il possibile accordo con l’Iran e l’incremento in atto nella produzione di energia da scisti, gli Usa continueranno a garantire la sicurezza nazionale dei paesi arabi del Golfo, ma per Riyadh questi sviluppi hanno comunque un forte odore di rovesciamento delle alleanze.

L’Arabia Saudita trova appoggio nel nuovo regime egiziano che tiene stretto grazie alle generose sovvenzioni che elargisce nella lotta contro i Fratelli Mussulmani. A livello regionale, la strana coppia saudo-egiziana si scontra con l’altrettanto strana coppia Turchia-Qatar che invece sostiene la Fratellanza (è di venerdì la notizia del licenziamento dell’ambasciatore turco in Egitto). Tuttavia, anche Ankara e Doha, malgrado le differenze, restano capitali sunnite che osservano con diffidenza e malumore il presagio dell’accordo Usa-Iran.

Anche se non potrà essere un’intesa come quella che c’era fra Washington e lo Shah, si tratta di una stretta di mano destinata a cambiare considerevolmente gli equilibri della regione.

Dossier Siria
Mentre il primo accordo che si è avuto a Ginevra viene realizzato, il governo statunitense potrebbe cercare di fare passi avanti anche sul piano delle relazioni politiche e affrontare con Teheran un’altra possibile intesa, questa volta sulla Siria (e magari tornare sul tema dell’Afghanistan, che con Khatami fu una cooperazione di successo).

Tale intesa spiazzerebbe la deriva dell’estremismo sunnita in Siria (che la monarchia di Riyadh, legata nella sua legittimazione ai wahabiti, non sarà mai in grado di dominare o incanalare) e indebolirebbe il ruolo crescente della Russia nella regione.

Un accordo con l’Iran per imboccare in Siria la strada di un compromesso sarebbe un fatto positivo. Tuttavia, è già evidente che una moderazione dell’Iran non corrisponde in sé e per sé ad una stabilizzazione della regione. Basta pensare all’attacco che al-Qaida ha messo a segno a Beirut, distruggendo l’ambasciata iraniana e alla risposta a colpi di mortaio che certe brigate sunnite hanno fatto piovere in Arabia Saudita dal territorio iracheno (destinati a colpire politicamente anche il governo sciita di Baghdad).

Se gli sviluppi tra Iran e Stati Uniti dovessero essere condotti senza la dovuta cautela e gradualità, ci troveremmo con un pericoloso allargamento alla regione della guerra settaria già in atto.

Un’eventuale ripresa di rapporti con l’Iran deve essere gestita con cautela, al fine che diventi un fattore di pacificazione e ordine nella regione. Tutti gli alleati statunitensi nella regione sono allarmati. Mentre Obama va lodato per questo sviluppo, è anche necessario che il relativo distacco dal Medio Oriente che egli persegue tenacemente – per portare gli Usa fuori dalle secche in cui le passate presidenze “imperiali” li hanno lasciati – sia guidato da una strategia adeguata.

Finora l’idea di andarsene dal Medio Oriente è stata invece sorretta solo da un forte pragmatismo, al quale in fondo non appare estranea neppure l’intesa appena siglata a Ginevra. Ma il pragmatismo, seppure un saggio modo di condurre le cose, non è mai di per sé risolutivo.

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