4 Ottobre 2024, venerdì
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LA STABILITÀ FORMALE NON PLACA L’INSTABILITÀ SOSTANZIALE NEL 2014 CAMBIARE REGISTRO O SARÀ TROPPO TARDI

Il 2013 si chiude con il Paese che vive una pericolosa schizofrenia. Da un lato la “stabilità formale”, ottenuta dal Quirinale e dal governo pur in una fase di turbolenza politica e istituzionale non meno intensa di quella che nel 1992 spazzò via la Prima Repubblica. Dall’altro, la “instabilità sostanziale”, dovuta al perdurare della crisi economica e all’inarrestabile manifestarsi delle sue conseguenze, materiali e psicologiche, cui fa pendant il crollo della credibilità del sistema politico-istituzionale e dei suoi attori agli occhi della quasi totalità degli italiani. Da un lato il richiamo al senso di responsabilità di Napolitano e al buonsenso del padre di famiglia da parte di Letta, dall’altro il pulsare della piazza e, ancor più significativo, il senso di ribellione del mondo produttivo. Da un lato lo sforzo di ottimismo di chi vede la luce in fondo al tunnel e garantisce che la ripresa è a portata di mano, dall’altro il cupo pessimismo di chi non coltiva più la speranza e teme che si sia superato il punto di non ritorno.

Difficile uscirne, da questa contraddizione. Di stabilità e ottimismo c’è bisogno come pane, ma la loro esaltazione retorica e scarsamente sostenuta dai fatti cozza contro il muro di rabbia e sfiducia che non è di un gruppo di facinorosi che brandiscono parole d’ordine pericolose, ma dell’intero Paese. D’altra parte, se la prudente Confindustria ha deciso di partire all’attacco del governo – prima con un fondo del direttore del Sole 24 Ore in cui si dava del “traditore” a Letta, e poi con ruvide dichiarazioni del presidente Squinzi, spese nel tentativo di tacitare lo scontento della gran parte dei suoi colleghi fin qui scontenti di una rappresentanza considerata troppo acquiescente – significa che anche gli imprenditori, compresi quelli “governativi” per definizione, non ne possono più e vogliono urlarlo a pieni polmoni. Un grido di dolore non di qualunquistica avversione alla politica – magari da surrogare con uno stato di polizia o i militari al governo, come qualche imbecille grida nelle manifestazioni rivoltose – ma di chi vede messa in pericolo la sua stessa sopravvivenza e vuole reagire. Altro che i “forconi”. Se Squinzi, che fin qui ha fatto prevalere il senso di responsabilità verso un governo deludente ma indispensabile, usa la cruda valutazione che la recessione, quella “profonda” durata 6 anni e che ci ha mangiato 9,1 punti di pil, sarà pure finita ma certo non sono finiti i danni, “commisurabili solo con quelli di una guerra”, che ha prodotto, vuol dire che il mondo produttivo sente la necessità di dire con forza la verità ad un Paese diviso tra chi la crisi l’ha materialmente patita e chi l’avverte più che altro sul piano psicologico ma che complessivamente ha subito un grave arretramento ed è diventato più fragile ed è unito dal giudizio di condanna inappellabile nei confronti della politica.

E come potrebbe essere altrimenti se quotidianamente si allestiscono indecorosi balletti intorno al tema di maggiore sensibilità pubblica, quello fiscale. Non intendiamo pronunciarci sui dettagli della legge di stabilità finché i due rami del parlamento non l’avranno definitivamente licenziata – anzi, finché non sarà in Gazzetta Ufficiale, vista la pessima abitudine di taroccare i testi normativi anche dopo la loro formale approvazione – ma certo tra Imu-Tasi, Tobin-tax e Web-rax, infinitesimale riduzione del cuneo fiscale e balletto l’uso dei presunti risparmi della spending review, si è messo in scena uno spettacolo a dir poco deplorevole. Ma sull’impianto generale della manovra il nostro giudizio è stato netto fin dall’inizio: mosse giuste, partita sbagliata. È come se avessimo giocato a calcio o a rugby in un campo da tennis: abbiamo rispettato le regole, ma dovevamo praticare un altro sport. Nessuno con un po’ di sale in zucca può contestare la necessità per un paese che ha 2 mila e rotti miliardi di debito, pari al 135% del pil, di tenere sotto controllo i conti. Ma andava spiegato all’Europa che proprio per questo andava (andrebbe) ridotto il debito e non il deficit. E per convincerla che stavolta avremmo fatto (faremmo) sul serio, occorreva preparare un grande piano di valorizzazione-dismissione del patrimonio pubblico cui chiamare a concorrere, in modo obbligatorio ma non punitivo, anche il patrimonio privato. D’altra parte, cosa si fa a fare una grande coalizione se non per realizzare ciò che i due poli del sistema bipolare non sono stati capaci di fare? Invece il governo, sbagliando su due punti politicamente decisivi – la comunicazione (non andava detto che la crisi era finita, anzi) e il metodo di azione (ha usato la mediazione preventiva anziché il decisionismo) – ha finito per produrre una manovra di aggiustamento e manutenzione, inadeguata sul piano degli effetti pratici e perniciosa sul terreno della percezione delle pubblica opinione.

Come volete che sia lo stato d’animo degli imprenditori, grandi e piccoli, al cospetto di questa palese dimostrazione di impotenza politica? Il mondo produttivo si domanda in coro se il Paese abbia già perso la partita e, purtroppo, in moltissimi casi si da risposta affermativa. Per cui nessuno investe, pochi (quello che esportano) riescono ad astrarsi, molti chiudono-vendono-emigrano-esportano capitali, tutti vorrebbero prendere la residenza a Londra (un numero crescente l’ha già fatto). Sul piano politico, il rischio è che in tanti, troppi, cedano alle lusinghe dell’anti-politica qualunquista. Il pericolo non è che gli imprenditori scendano in piazza – nel caso, consigliamo di farlo insieme ai lavoratori – ma che gonfino le vele del populismo, dei movimenti anti-euro, di chi urla “facciamola finita” (intendendo, consapevolmente o meno, “con la democrazia”). Vorremmo sbagliarci, ma temiamo che nelle viscere della società circolino veleni destinati a lasciare pesanti conseguenze.

Finora abbiamo creduto – o meglio, ci siamo sforzati di credere – che l’indispensabilità del governo Letta facesse premio sulla delusione che provoca, così come a suo tempo fu per il governo Monti. E che, dunque, le elezioni anticipate fossero l’ultima necessaria. Ma dopo la sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale – che se non rende giuridicamente illegittimo il Parlamento certo lo rende tale sul piano politico – abbiamo nostro malgrado dovuto cambiare idea. Troppo alto il prezzo che si paga a continuare così, troppo pericoloso alimentare sentimenti di rivolta che, ahinoi, è difficile sostenere che non abbiano giustificazione. Ma dobbiamo amaramente constatare che Letta non ha colto la grande opportunità – anche dal punto di vista suo personale – insita nel resettare il gioco politico dopo il pronunciamento della Corte, e che i primo prezzo pagato da Renzi alla conquista della segreteria del Pd è stato abbandonare la linea delle elezioni subito proprio quando questa, contrariamente a prima, è diventata giusta. Peccato, perché se i due “giovani” democrat non trovano le ragioni di una forte e intelligente alleanza, finiranno per rimetterci entrambi ma, soprattutto, finiranno per spegnere anche l’ultima fiammella di speranza che la politica sappia rinnovarsi anche senza la rivolta di piazza, la serrata degli imprenditori e la marea montante dell’anti-politica qualunquista e populista.

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