24 Aprile 2024, mercoledì
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Massacrata in casa: a un anno dal delitto il killer è ancora libero

Era il 20 dicembre dello scorso anno quando Mestre, nel pomeriggio del giovedì prima di Natale, rischiarato dalle luminarie delle feste, venne sconvolta da un delitto tanto atroce quanto assurdo. Sia per l’età della vittima, sia per la modalità.

Lida Taffi Pamio, 87 anni ben portati, infatti, venne letteralmente massacrata nel suo appartamento al secondo piano del condominio di via Vespucci 13 dove viveva da sola dopo aver perso l’unico figlio e il marito. Raccapricciante la scena che si è presentata ai primi soccorritori: sul pavimento del salotto il corpo dell’anziana era in un lago di sangue trafitto almeno una decina di volte con quattro coltelli presi dal ceppo in cucina e impugnati con una furia tale da spezzarne tre, tanto che le lame sono rimaste conficcate nella carne: fendenti talmente violenti da squarciare il cuore e trapassare il corpo da parte a parte. Uno scempio.

Gli investigatori della Squadra Mobile di Venezia del dirigente Marco Odorisio, che conducono le indagini coordinati dal sostituto procuratore Federico Bressan, fin dall’inizio non hanno avuto alcun dubbio. Nessun movente predatorio, nessuna rapina finita male, bensì un astio personale malato e distorto, covato per anni ed esploso all’improvviso magari per un fatto banale come può essere il volume del televisore troppo alto.

Dall’abitazione non manca nulla: soldi, gioielli, suppellettili preziosi. Solo un gran disordine quasi a voler depistare gli inquirenti. E soprattutto nessun killer venuto da fuori: le tracce ematiche sono confinate in casa, le scale sono intonse, impossibile che l’autore di quella mattanza non si sia sporcato. E le telecamere della banca situata di fronte all’ingresso dell’edificio non hanno inquadrato alcun estraneo entrare o uscire fra l’una e le 17, l’arco di tempo in cui l’anatomo patologo ha collocato il decesso di Lida. Di qui l’ipotesi sconvolgente che il killer non solo conosceva la vittima ma che addirittura lo si dovesse cercare fra gli inquilini del palazzo.

Chi ha ammazzato l’ultraottantenne, minuta, indifesa era mosso da rancore e rabbia: ha agito d’impeto in preda a un raptus di lucida follia. Con la volontà di uccidere. Altrimenti non si spiega l’efferatezza e la crudeltà: le botte soprattutto al capo e al volto – calci e pugni – per tramortirla, lo scottex cacciato in bocca per impedirle di urlare o per soffocarla, la maglia alzata sulla faccia a coprirle gli occhi, il cavo elettrico stretto al collo e poi le pugnalate. In un crescendo di ferocia sconvolgente.

Nei dodici mesi trascorsi dal quel giorno maledetto, c’è stato un solo nome iscritto nel registro degli indagati: quello dell’infermiera cinquantaduenne che condivide lo stesso pianerottolo della casa del massacro, tuttora sotto sequestro. Difesa dall’avvocato Alessandro Doglioni ha sempre respinto ogni addebito: «Stavo dormendo perché avevo lavorato la notte in ospedale. Non ho sentito nulla» ha detto. Nel corso della perquisizione domiciliare delegata dal magistrato sono stati sequestrati alcuni capi di abbigliamento, un paio di pantofole, spugnette per la pulizia. Materiale utilizzato e indumenti indossati dall’omicida? Da quanto emerso nei ripetuti sopralluoghi scientifici e dagli accertamenti tecnici sarebbe emerso che chi si è accanito su Lida portava guanti in microfibra e calzava ciabatte con la suola di gomma. Il rebus resta ma non è detto che debba rimanere tale.

A dare l’allarme, fu il nipote di Lida: aveva appuntamento con la zia per accompagnarla in auto dal medico per una visita. All’orario pattuito, dopo averla attesa una decina di minuti è salito: non ottenendo risposta né al campanello della porta né al telefono, ha temuto il peggio. Ma mai si sarebbe immaginato l’orrore che avrebbe vissuto di lì a poco.

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