L’Italia si trova in una sorta di terra di nessuno per quanto riguarda la politica fiscale. La procedura per eccesso di disavanzo avviata nel 2009 dalla Commissione europea è stata abrogata nel giugno del 2013 dopo che la correzione messa in atto dall’Italia è stata giudicata duratura, anche a seguito di previsioni di discesa del deficit sotto – ma sempre pericolosamente vicino – la soglia del 3%.
D’altra parte, il rapporto debito/Pil è destinato ad aumentare ancora, superando il 130%. Gli impegni siglati nel quadro del fiscal compact richiedono però una riduzione regolare.
Europa scettica
È per questa ragione che in novembre la Commissione aveva espresso un parere ‘non positivo’ sul documento programmatico di bilancio per il 2014. La Commissione continua a essere ‘scettica’ (come ha detto il commissario Olli Rehn in un’intervista recente) sulla capacità del paese di ridurre il debito.
Il governo italiano, dal canto suo, considera invece la Commissione troppo severa nel suo giudizio, accusandola di non tenere nel debito conto la delicata fase ciclica del paese e della traiettoria in calo del deficit, con un avanzo primario dell’ordine del 3% del Pil, uno dei più alti in Europa.
È chiaro che la riduzione del debito è un processo difficile, ma le nuove regole contenute nel Patto di stabilità si basano sul così detto deficit strutturale che tiene conto della recessione. In questo contesto, invocare la difficile congiuntura come condizione per l’eccezione alla regola è un argomento poco convincente.
Secondo i conti della Commissione, l’Italia ha già adesso un bilancio strutturale quasi in equilibrio, il che pone Roma in una posizione di forza. Ma se la stima attuale dell’output gap – la differenza tra prodotto interno lordo effettivo e potenziale – su cui si basa il calcolo del disavanzo strutturale, dovesse essere aggiustata, questo potrebbe non corrispondere alla realtà.
Stime al ribasso
Il passato ci insegna che quando un calo della crescita, che all’inizio era considerato ciclico, permane e poi si rivela strutturale, le stime sono sistematicamente riviste al ribasso. Le ultime previsioni non fanno eccezione: l’output gap stimato per il 2014 è sceso da -2.9 (stimato nell’ autunno 2012) a -3.7. In tali circostanze il margine di manovra dell’Italia per l’anno prossimo si riduce notevolmente.
Inoltre, sarebbe sbagliato confondere qualche risultato positivo sul fronte dei conti pubblici con una sostenibilità del debito a lungo termine.
La traiettoria del debito italiano punta ora al 140% del Pil. Solo ipotesi particolarmente ottimiste sul tasso di crescita e avanzi primari ancora più larghi di quelli correnti possono assicurare una riduzione del debito, senza ulteriori manovre. Il processo di assorbimento dello stock di debito esistente attraverso avanzi primari è un processo lento e lungo.
Piano privatizzazioni
Il piano di privatizzazioni attualmente al vaglio del governo rischia di essere solo uno specchietto per allodole. Le privatizzazioni porterebbero un aumento delle entrate una tantum e non scioglierebbero il nodo della spesa eccessiva. Non rappresentano quindi una soluzione strutturale.
Inoltre, si corre ora il serio rischio di svendere. In un mercato depresso, il Tesoro rischia di incassare molto meno di quello che viene stimato come il valore di mercato.
Un altro problema cruciale – non considerato – è che la vendita priverebbe per sempre il Tesoro degli introiti che rendono i beni da privatizzare. Per esempio, le partecipazioni nelle aziende quotate come Enel ed Eni generano un rendimento in termini di dividendi.
Questo rendimento è ora vicino al 5%, più alto del costo del debito. In queste condizioni una privatizzazione non ha senso economicamente: non è nell’interesse dello stato italiano vendere attività che rendono il 5% per ripagare debito che costa il 4%. Lo stesso ragionamento vale per gli altri beni sulla lista delle potenziali privatizzazioni.
Stesso copione
Il problema di fondo dell’Italia è che l’esperienza degli anni dopo l’introduzione dell’euro sembra seguire sempre lo stesso copione: il paese si trova sistematicamente vicino ai limiti imposti dall’Europa e ogni governo cerca di guadagnare tempo sostenendo che aggiustamenti troppo forti mettono in pericolo un’economia fragile, mentre più investimenti pubblici permetterebbero di generare crescita su basi più solide.
Il risultato è sempre lo stesso. Il rilassamento delle regole di disciplina fiscale e i tanti piani per l’aumento degli investimenti pubblici non hanno risolto il problema della bassa crescita e del debito pubblico. La Commissione ha quindi ragione di essere ‘scettica’ e di pensare che anche questa volta il risultato non sarebbe diverso.