25 Aprile 2024, giovedì
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Redditometro: i dubbi del tribunale di Napoli sulla privacy

Con due sentenze n. 10508 del 2013 e n. 10764 del 2013, emanate a distanza di una settimana l’una dall’altra, il tribunale di Napoli (sezione civile stralcio), torna a bocciare il Dm 24 dicembre 2012 che, dando attuazione al disposto dell’articolo 38, comma 4, del Dpr 600/1973, come modificato dall’articolo 22, comma 1, del Dl 78/2010, ha profondamente rivisitato il contenuto induttivo degli elementi indicativi di capacità contributiva in base ai quali l’Agenzia delle entrate può fondare la determinazione sintetica del reddito (cosiddetto “redditometro”).

Come era già avvenuto a febbraio scorso con una ordinanza di accoglimento di un ricorso proposto da un contribuente in via cautelare ex articolo 700 del Cpc, i giudici partenopei – questa volta in esito a un giudizio di merito – hanno inibito agli uffici finanziari, prima ancora che il loro utilizzo fiscale, la raccolta stessa degli indici di spesa rilevanti per la ricostruzione induttiva del reddito dei ricorrenti e, nel caso, la distruzione di tutti gli elementi informativi eventualmente già acquisiti a detto scopo.

Le due decisioni del tribunale di Napoli
La questione della giurisdizione – Entrambi i giudici (uno dei quali è lo stesso che aveva già firmato la citata ordinanza cautelare di febbraio), con identiche argomentazioni, hanno innanzitutto ritenuto che le fattispecie loro proposte rientrano nella cognizione del giudice ordinario trattandosi di istanze volte a ottenere l’accertamento giurisdizionale del diritto alla riservatezza di contribuenti avverso l’Agenzia delle entrate atteso che questa, attraverso il decreto del 2012 attuativo nel nuovo redditometro, sarebbe stata messa (in violazione di quanto previsto dalla disposizione “madre” di cui al citato articolo 38 del Dpr 600/1973) nelle condizioni di venire a conoscenza di ogni aspetto della sfera personale dei contribuenti, i quali in tal modo verrebbero definitivamente vulnerati nel diritto ad avere una vita privata, di poter gestire autonomamente il proprio denaro e le proprie risorse, a essere quindi liberi nelle proprie determinazioni senza dover: essere sottoposti all’invadenza del potere esecutivo; dare spiegazioni dell’utilizzo della propria autonomia; subire intrusioni anche su aspetti delicatissimi della privacy degli individui quali quelli relativi alla spesa farmaceutica, al mantenimento e all’educazione impartita alla prole e alla propria vita sessuale; il che equivarrebbe di fatto alla soppressione definitiva di ogni riservatezza e dignità riguardante, peraltro, non solo il singolo contribuente, ma tutti i componenti del nucleo familiare.

La violazione della riservatezza e gli atti dell’amministrazione finanziaria – I giudici in sostanza sottolineano (anche nella sentenza del medesimo tribunale 10764/13) come i ricorrenti non avessero messo in discussione il corretto accertamento del tributo – nel caso in questione non solo non si era ancora giunti all’emanazione di un atto impositivo ma neppure era stato ancora iniziato un controllo fiscale fondato sul redditometro – ma lamentavano una ipotetica violazione dei loro diritti fondamentali (la riservatezza in particolare) causata da una potenziale raccolta indeterminata di dati afferenti la vita privata (anche “sensibili”, come quelli relativi alla salute, agli orientamenti politici, sessuali, religiosi e altri) ritenuta sproporzionata rispetto al fine della lotta all’evasione fiscale.

Sul punto, le sentenze in esame sembrano dare voce alle preoccupazioni espresse da una parte della dottrina, che sulla scia di certa giurisprudenza internazionale (si veda in specie la sentenza “Ravon” della Corte europea dei diritti dell’Uomo del 21 febbraio 2008), ha ravvisato la necessità di garantire ai contribuenti una tutela immediata, anche di tipo inibitorio, da parte di un giudice terzo e imparziale nei confronti delle indagini fiscali, dal momento che queste possono incidere su diritti fondamentali dei soggetti ispezionati prima ancora e a prescindere dal fatto che le relative risultanze vengano tradotte in avvisi di accertamento.

Nonostante gli atti istruttori irrituali, in effetti, sono in grado di incidere situazione soggettive del contribuente (o di eventuali terzi coinvolti nell’attività di controllo dell’amministrazione finanziaria) anche di natura non patrimoniale – inviolabilità del domicilio, diritto alla riservatezza e altro – senza l’emanazione di un atto impositivo, sinora la giurisprudenza maggioritaria è tuttavia nel senso di ammettere soltanto una tutela “differita”, ossia in sede di ricorso avverso l’eventuale avviso di accertamento, secondo la regola generale dell’invalidità “derivata” in base alla quale l’atto endoprocedimentale illegittimo riverbera i propri effetti deleteri sul provvedimento finale; tale tutela differita peraltro è di esclusiva pertinenza delle Commissioni tributarie sulla scorta del disposto onnicomprensivo degli articoli 2, commi 1-3, e 7 del Dlgs 546/1992 in forza del quale spettano al giudice speciale tributario tutte le controversie aventi a oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominate nonché la risoluzione in via incidentale di ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, ivi compreso il potere di disapplicare il regolamento o l’atto amministrativo illegittimo, qualora sia rilevante ai fini della decisione.

Dal momento che l’articolo 19 del citato Dlgs 546/1992 non comprende gli atti istruttori tra quelli impugnabili potrebbe quindi al più porsi un problema di costituzionalità per una evidente lacuna del sistema che non sembra accordare idonee forme di tutela allorquando il contribuente assuma la lesione di proprie posizioni giuridiche a causa dell’attività posta in essere dall’amministrazione finanziaria in occasione o nella prospettiva dell’applicazione di tributi, nei casi in cui in esito a tale attività lesiva non segua la formalizzazione della pretesa tributaria.
Neppure appare risolutivo, come invece ritengono i giudici, il riferimento all’articolo 152 del Codice della privacy che radica la competenza del giudice ordinario per tutte le controversie attinenti alla materia della protezione dei dati personali, tenuto conto che ai fini della determinazione della giurisdizione occorre comunque verificare quale sia l’oggetto “principale” del giudizio che nel caso in esame non può che essere costituito da quel peculiare modulo accertativo denominato appunto “accertamento sintetico”, nella versione “redditometro”: la lesione del diritto alla riservatezza è dunque mediata da atti che appartengono alla sfera fiscale e dunque ricadenti nella cognizione esclusiva dei giudici tributari.

Una vera fuga in avantii?- Alla luce di queste considerazioni, le pronunce dei giudici napoletani in esame sembrano rappresentare una vera e propria fuga in avanti, essendo connotate altresì da evidenti forzature come quella di aver di fatto accordato ai ricorrenti un’azione preventiva di mero accertamento negativo – come sopra evidenziato, la lesione della sfera giuridica dei ricorrenti nella fattispecie era difatti meramente ipotetica e astratta non essendo stato neanche avviato un controllo redditometrico nei loro confronti – ritenuta invece dalla dottrina e dalla giurisprudenza pacificamente improponibile in materia tributaria.

La disapplicazione del Dm 24 dicembre 2012 – Affrontata la questione pregiudiziale relativa alla giurisdizione, il tribunale di Napoli entra poi nel merito delle ragioni per le quali ha ritenuto di disapplicare il Dm 24 dicembre 2012: ad avviso dei giudici il decreto non farebbe innanzitutto alcuna differenziazione tra cluster di contribuenti come imposto dal ripetuto articolo 38 del Dpr 600/1973, operando del tutto autonomamente una differenziazione in base a campioni significativi di famiglie distinti in base alla composizione (persone sole, suddivise in tre fasce d’età; coppie con 1, 2, 3 o più figli, senza distinzione di età all’interno di ciascuna tipologia; monogenitori; altre tipologie di famiglie) e all’area geografica di appartenenza (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e isole), per un totale di 55 tipologie.

Inoltre il Dm utilizza come parametro per determinare le spese medie delle famiglie quelle risultanti dall’indagine annuale sui consumi delle famiglie comprese nel Programma statistico nazionale fondate su analisi macroeconomiche e sociologiche effettuate per finalità diverse. Infine, si assume che con questo nuovo strumento si prevede, in dispregio dell’articolo 2 sui diritti inviolabili dell’uomo, dell’articolo 13 sulla libertà personale, e dei diritti fondamentali previsti dalla Carta dell’Unione europea, la raccolta e la conservazione non già di questa o quella voce diversa tra loro per genere (come previsto dall’articolo 38), ma, a ben vedere, di tutte le spese sostenute dal cittadino-contribuente riconoscendo all’Agenzia delle entrate, precisano ancora i giudici, un potere di cui non godrebbe neppure l’autorità giudiziaria penale.
Si tratta di critiche in verità esagerate e in gran parte fuorvianti. Innanzitutto è lo stesso articolo 38 a prevedere che la determinazione sintetica del reddito può essere fondata sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuato mediante l’analisi di campioni di contribuenti «differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza».

Peraltro, se è vero che l’imposizione tributaria è personale è altresì vero che prendere in considerazione il reddito dell’intero nucleo familiare è nell’interesse dello stesso contribuente ispezionato in quanto in tal modo questi può evitare il controllo ogniqualvolta risulti che le sue spese sono coerenti con il livello di reddito familiare ancorché non lo siano, per ipotesi, anche con quello individuale.

Quanto alle spese medie Istat, come chiarito nella circolare delle Entrate 31 luglio 2013 n. 24/E, gli uffici ai fini della selezione delle posizioni a maggior rischio di evasione dovranno tener conto esclusivamente dell’entità dello scostamento tra reddito dichiarato e reddito determinabile sinteticamente sulla base delle spese di ammontare certo ovvero su quelle calcolate presuntivamente in relazione però alla concreta disponibilità di beni di cui l’amministrazione possiede le informazioni relative alle specifiche caratteristiche (ad esempio potenza delle auto, lunghezza delle barche e altro – cosiddette “spese per elementi certi”).

Nella selezione non avranno invece valenza le spese per beni di uso corrente che fanno riferimento alla spesa media risultante dall’indagine annuale Istat sui consumi delle famiglie, onde evitare situazioni di marginalità economica e categorie di contribuenti che, sulla base dei dati conosciuti, legittimamente non dichiarano, in tutto o in parte, i redditi conseguiti. Anche il contraddittorio obbligatorio pre-accertamento deve vertere inizialmente in ordine alle sole «spese certe» e a quelle «per elementi certi».

Soltanto nell’ipotesi in cui il contribuente non fornisce chiarimenti esaustivi il contraddittorio si estenderà alle spese medie rilevate dall’Istat, per le quali l’Agenzia, correttamente, ha comunque stabilito che il contribuente può utilizzare argomentazioni logiche a sostegno di una sua diversa rappresentazione della situazione di fatto, che ove credibili, potranno essere ritenute sufficienti dagli uffici anche se non supportate da documentazione, superando in tal modo le obiezioni dei giudici napoletani che sottolineavano l’impossibilità per il contribuente di fornire la prova “negativa”, in ordine cioè a «ciò che non si è fatto» o a «ciò che non si è comprato». Destituita di fondamento è anche la censura riguardante la presunta estensione dei poteri conoscitivi dell’amministrazione attribuita al citato Dm del dicembre 2012.

Rispetto alla precedente versione dell’accertamento sintetico che pure prevedeva, almeno in linea teorica, la possibilità per gli uffici di porre a base delle contestazioni il tenore di vita desunto da qualsiasi spesa effettuata del contribuente, il nuovo redditometro si avvantaggia adesso in concreto della capacità dell’amministrazione finanziaria di intercettare informazioni relative a un numero significativo di elementi di spesa dei contribuenti, in quanto già presenti in anagrafe tributaria o comunque disponibili: si pensi alla comunicazione dei premi delle polizze assicurative, delle utenze, dei canoni di leasing e a quelle del cosiddetto “spesometro” per lo “shopping di lusso” (ossia per importi superiori a 3.600 euro), agli oneri sanitari dei quali il contribuente richiede la detrazione in dichiarazione, per non parlare della mole di informazioni presenti nell’archivio dei rapporti finanziari attraverso le quali si può avere precisa contezza della generalità delle spese sostenute dal contribuente, quantomeno di quelle effettuate con mezzi di pagamento tracciabili. Se le critiche dei giudici di Napoli fossero ritenute fondate allora si dovrebbe mettere in discussione la stessa possibilità per l’amministrazione di effettuare controlli e di utilizzare a questo scopo le informazione che già possiede in virtù di precise disposizioni di legge.

Si tratta in definitiva di pronunce che, pur avendo già suggestionato qualche Commissione tributaria (si veda la sentenza della Ctp di Reggio Emilia 74/13), paiono animate da uno spirito iconoclasta e perciò destinate ad avere scarso seguito anche se un effetto di rilievo probabilmente l’hanno prodotto: a loro probabilmente si deve il posticipo dell’invio dei 35mila inviti al contraddittorio fondati sull’applicazione del redditometro preannunciati dall’Agenzia delle entrate e che sono stati bloccati per approfondimenti istruttori richiesti dal Garante della privacy

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