inizio gennaio la Corte europea dei diritti dell’uomo (“la Corte”) ha condannato l’Italia in seguito al ricorso proposto da sette detenuti (tre italiani e quattro stranieri) negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza (Torreggiani e altri contro Italia). La Corte ha appurato che i ricorrenti erano stati a lungo reclusi in celle di nove metri quadri occupate da tre persone.
Svolta
Ciascuno di loro aveva dunque fruito di uno spazio inferiore allo standard minimo di quattro metri quadri per detenuto stabilito dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (il meccanismo specializzato del Consiglio d’Europa). A Piacenza la ristrettezza eccessiva della cella era stata aggravata dalla mancanza prolungata di acqua calda e da illuminazione e ventilazione insufficienti.
La sentenza in questione rappresenta una svolta rispetto alla precedente pronuncia del 16 luglio 2009 nel caso Sulejmanović contro Italia (citatissima, nonostante la minore gravità dei fatti, proprio perché era stata vista come il preludio di un serio contenzioso a Strasburgo con riferimento alla situazione nelle carceri italiane). Torreggiani e altri è infatti una “sentenza-pilota”: la Corte accerta l’esistenza di un problema strutturale, corroborato da un elevato numero di ricorsi simili, e impartisce al governo un termine entro il quale predisporre un ricorso interno efficace e adottare misure generali appropriate.
In attesa di giudizio
Nel caso Torreggiani e altri l’Italia dispone di un anno per introdurre innanzitutto un ricorso efficace, cioè idoneo ad ottenere il miglioramento delle condizioni di detenzione. La via di ricorso (al magistrato di sorveglianza) al momento disponibile non ha tale caratteristica, anche perché le relative decisioni non vengono attualmente eseguite a causa, appunto, della natura strutturale del problema. Inoltre, è in pratica molto difficile chiedere una riparazione per le condizioni inumane o degradanti della detenzione.
La Corte ha anche richiamato l’attenzione dell’Italia sulle raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa in materia, le quali promuovono il ricorso a misure alternative alla detenzione e una rielaborazione della politica penale nel senso di intendere il carcere come extrema ratio limitata ai casi in cui “la gravità del reato è tale da rendere qualunque altra misura o sanzione manifestamente inadeguata” (Raccomandazione 99/22 del 30 settembre 1999).
Va detto che nel caso italiano la Corte ha escluso qualunque intenzione di umiliare i detenuti e ha dato atto di qualche modesto progresso in seguito ai provvedimenti urgenti adottati nel 2010. Una corretta attuazione della sentenza-pilota, tuttavia, richiede non solo interventi in ambito strettamente carcerario, ma anche un ripensamento delle politiche penali, ovvero un ridimensionamento del ricorso alla detenzione e l’individuazione di sanzioni alternative.
Ridurre il sovraffollamento delle carceri conviene certamente al Governo, che eviterebbe di dover affrontare le centinaia di cause pendenti a Strasburgo, ma anche al sistema-paese: prigioni più umane dovrebbero essere infatti il riflesso di un sistema penale meno afflittivo anche perché ripensato in un’ottica di efficacia e di prevenzione.