Roma – L’Alzheimer, malattia crudele e silenziosa che spegne i ricordi lasciando accese solo le emozioni più profonde, è al centro del cortometraggio Io che non vivo, scritto, diretto e interpretato da Cristina Puccinelli. Un’opera intensa e personale, che sarà presentata domani, mercoledì 15 ottobre alle ore 18:30 all’Auditorium Conciliazione di Roma, nell’ambito della sezione Onde Corte di Alice nella Città, evento collaterale e autonomo della Festa del Cinema di Roma dedicato ai giovani e al cinema di scoperta.
Una storia intima, che scava nella fragilità dell’identità, nel legame viscerale tra madre e figlia, e nell’urgenza di affrontare la perdita come una soglia che può – e deve – trasformare chi resta.
Una “dramedy” sulle crepe dell’anima
Girato interamente a Lucca, terra d’origine della regista, Io che non vivo è una dramedy – genere ibrido tra dramma e commedia – della durata di 19 minuti e 25 secondi, prodotta da Fabrizio Larini per Cinema.T.S., con la produzione esecutiva di Valeria Correale. Il cortometraggio si avvale della colonna sonora originale di Federico De Robertis e della canzone di Pino Donaggio che dà il titolo al film, rielaborata in chiave emozionale per diventare specchio dello smarrimento della protagonista.
Viviana, interpretata dalla stessa Puccinelli, è un’attrice quarantenne che fatica a riconoscersi nella vita che ha costruito. I sogni di un tempo si sono sfaldati, il lavoro – sebbene centrale – non colma i vuoti, e le relazioni affettive non offrono appigli. L’unico legame solido è quello con la madre, figura cardine della sua esistenza, che però inizia a smarrire la memoria e sé stessa. L’Alzheimer si insinua così come un vento gelido che soffia via ogni certezza, fino a rendere estranee anche le persone più amate.
Quando il dolore è un nuovo inizio
Il cortometraggio non si limita a ritrarre una condizione clinica: indaga piuttosto ciò che la malattia muove, o meglio smuove, in chi resta. La perdita progressiva della madre diventa per Viviana un tempo di rinascita e maturazione. È un coming of age in ritardo, come lo definisce la regista stessa nelle sue note: la protagonista, seppur adulta, è costretta a confrontarsi con un cambiamento irreversibile, imparando a prendersi cura dell’altro – e finalmente di sé stessa.
Il film non si muove su binari didascalici ma costruisce una narrazione stratificata, in cui vero e surreale si mescolano senza confini netti. I sogni, i pensieri e le proiezioni interiori di Viviana si integrano con la realtà quotidiana, rendendo palpabile il suo spaesamento. Il teatro, ambiente lavorativo e simbolico, diventa lo spazio in cui si mette in scena il dolore, si prova a capirlo, si tenta di dargli un volto.
Accanto a Cristina Puccinelli, il cast comprende Betty Pedrazzi nel ruolo della madre – attrice di lunga esperienza teatrale e cinematografica – Laura Giannatiempo in quello di Laura e Carlo De Ruggieri nel ruolo dell’analista. La fotografia è firmata da Michele D’Attanasio, il montaggio da Paola Freddi e Antonio Cellini, i costumi da Patrizia Chericoni e Maria Vittoria Castegnaro, la scenografia da Laura Vannoli, l’aiuto regia è di Andrea Pagani.
La genesi di un’opera personale
«Anche mia madre si è ammalata di Alzheimer», racconta Puccinelli. «Questo corto nasce dal bisogno di raccontare quello che ho vissuto e che continuo a vivere. Una malattia che non lascia scampo, che mette in allarme continuo, che priva le persone della propria storia. Quando ti accorgi che non si ricordano più di te, è devastante».
La regista, con grande lucidità e senza compiacimento, affronta un tema universale e spesso taciuto, facendo della sua esperienza personale una narrazione aperta, che vuole parlare a chi vive situazioni simili ma anche a chi si sente inadeguato, spaesato, stanco o prigioniero del proprio tempo. Il corto si fa così racconto generazionale, specchio di una fragilità contemporanea diffusa e profonda.
«Mi rivolgo a chi come me si trova a dover prendere decisioni che non voleva affrontare, a chi si sente sempre fuori posto, a chi sogna ancora un’isola che non c’è, a chi ha paura di essere dimenticato», spiega la regista. E aggiunge: «Vorrei che Io che non vivo diventasse un film. Questa storia merita uno sviluppo più ampio, perché tocca corde che tutti – prima o poi – si trovano a sentire vibrare».
L’omaggio a Donaggio e la forza della musica
Non è un caso che il titolo del film sia lo stesso di una celebre canzone scritta da Pino Donaggio nel 1965, Io che non vivo (senza te), brano iconico che ha attraversato generazioni. La regista, però, lo rilegge in chiave emotiva e intima, trasformandolo in un manifesto del vuoto affettivo e della paura dell’oblio. Donaggio, con generosità, ha concesso l’utilizzo del brano, che nel cortometraggio assume un nuovo valore: non solo colonna sonora ma filo conduttore emotivo, ponte tra passato e presente.
Cristina Puccinelli, una regista da seguire
Attrice, autrice e regista, Cristina Puccinelli ha costruito negli anni una carriera articolata, iniziata a Roma dopo il liceo. Laureata in Scienze della Comunicazione, ha frequentato scuole di recitazione e seguito registi sul set, maturando un’esperienza che l’ha portata a dirigere cortometraggi, documentari, videoclip e spot. I suoi lavori – tra cui Marilena, La Settimana, Koala – sono stati selezionati e premiati in festival italiani e internazionali, oltre ad essere distribuiti su piattaforme in Italia e all’estero. È direttrice artistica di festival come il Lucca Film Festival e insegna regia e sceneggiatura.
Una madre sullo schermo, un’attrice sul palco
Accanto a Puccinelli, nel ruolo della madre, l’intensa Betty Pedrazzi porta sullo schermo una prova delicata e profonda. Diplomata all’Accademia Silvio d’Amico, ha lavorato con maestri del teatro come Luca Ronconi, Toni Servillo, Carlo Cecchi. Ha recitato in importanti produzioni teatrali e cinematografiche – tra cui È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino – e in fiction televisive di successo. La sua presenza nel cortometraggio aggiunge una densità emotiva che rafforza la narrazione, rendendola ancora più autentica.
Un corto, molte domande
Io che non vivo non dà risposte facili. Non cerca di consolare né di commuovere forzatamente. Si muove invece con onestà tra il dolore e la bellezza, tra lo smarrimento e la speranza. Invita a respirare, anche quando tutto sembra togliere il fiato. A cercare, come dice Viviana nel film, “lucciole di felicità” anche nel buio più fitto. Perché a volte, anche nelle storie più brevi, si possono trovare verità che lasciano il segno.