2 Agosto 2025, sabato
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Martina Oppelli e il diritto negato: il grido nel vuoto di una cittadina italiana sul fine vita

Affetta da sclerosi multipla e sostenuta dall'associazione Luca Coscioni, la triestina è ricorsa al suicidio assistito in Svizzera dopo il terzo rifiuto ricevuto dal sistema sanitario italiano. Il suo ultimo appello alla politica: “Ogni dolore è assoluto, fate una legge sensata”.

Martina Oppelli è morta in Svizzera il 31 luglio 2025, all’età di cinquant’anni, dopo ventidue anni trascorsi convivendo con una forma invalidante di sclerosi multipla. L’ultima parte della sua vita è stata consumata non solo dalla malattia ma da un’attesa esasperante e da un confronto incessante con un sistema legislativo e sanitario che, secondo le sue parole, le ha negato il diritto a una morte dignitosa.

Accompagnata da attivisti dell’associazione Soccorso Civile — tra cui Claudio Stellari e Matteo D’Angelo — e sostenuta dal team legale dell’associazione Luca Coscioni, Martina ha scelto di recarsi all’estero per ottenere ciò che in Italia le è stato sistematicamente negato: l’accesso al suicidio medicalmente assistito.

Un’odissea legale e istituzionale

Oppelli aveva presentato la sua richiesta all’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina nel tentativo di vedere riconosciuto il proprio diritto all’aiuto alla morte volontaria, così come previsto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019, nota come “sentenza Cappato”. Quella sentenza stabilì che, in determinate condizioni, l’aiuto al suicidio non è punibile, purché il paziente sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.

È proprio quest’ultimo punto ad aver rappresentato l’ostacolo decisivo. Secondo l’interpretazione dell’azienda sanitaria, la condizione di Oppelli non rientrava nei parametri previsti, perché “non era sottoposta ad alcun trattamento di sostegno vitale”. Un’affermazione che, secondo l’associazione Luca Coscioni, ignora la realtà clinica e quotidiana della paziente: una donna completamente dipendente da dispositivi medici come il catetere, la macchina per la tosse, farmaci salvavita e l’assistenza continua di caregiver.

Il rifiuto dell’azienda sanitaria è arrivato per ben tre volte. Il 4 giugno 2025 il terzo diniego, cui Oppelli aveva fatto seguire — assistita dall’avvocata Filomena Gallo, segretaria nazionale della Coscioni — un atto formale di opposizione, comprensivo di diffida e messa in mora. Ma ogni ulteriore attesa è risultata insostenibile. “Era impossibile attendere altro tempo”, ha dichiarato l’associazione, riferendo che la sofferenza di Martina era diventata intollerabile sotto ogni punto di vista.

Le ultime parole: “Io non ho più tempo”

Martina ha voluto registrare, prima del suo ultimo viaggio, un videomessaggio in cui ripercorre con lucidità il cammino affrontato, rivolgendo un appello ai parlamentari e ai cittadini italiani. Le sue parole, affidate all’associazione Luca Coscioni, risuonano come un testamento civile e politico: “Più di un anno fa feci un appello affinché venisse promulgata una legge che regolasse il fine vita. Questo appello è finito nel vuoto”.

In quel messaggio, Martina denuncia la disumanità delle attese, l’assurdità dei viaggi all’estero, il peso economico e psicologico che grava su chi cerca, in un momento di estrema vulnerabilità, solo il riconoscimento della propria libertà di autodeterminazione. “Non voglio che questo iter si ripeta per altre persone. Non potete rimandarci sempre a settembre. Sappiate che ogni dolore è assoluto e va rispettato”.

In un altro passaggio, carico di dolore e consapevolezza, Martina racconta il deteriorarsi inesorabile del suo corpo: “In questi ultimi due anni il mio corpo si è disgregato, perfino i comandi vocali non mi capiscono più. Ma io non sono una macchina. Sono un essere umano”.

Una battaglia civile ancora aperta

Il caso di Martina Oppelli riapre un dibattito tanto urgente quanto ancora irrisolto nel panorama legislativo italiano. Dopo la sentenza del 2019, il Parlamento non è ancora riuscito a colmare il vuoto normativo che continua a relegare molti malati, anche gravissimi, in una zona grigia in cui il riconoscimento del diritto al fine vita resta incerto, soggetto a valutazioni difformi e spesso restrittive da parte delle aziende sanitarie locali.

La richiesta di una legge che disciplini in modo chiaro e rispettoso l’accesso al suicidio medicalmente assistito — già normato in paesi come Svizzera, Belgio, Paesi Bassi, Canada — non è nuova. Tuttavia, la classe politica italiana ha mostrato una persistente reticenza, forse per calcolo elettorale o per un’impostazione etico-religiosa che continua a prevalere sul principio costituzionale di laicità dello Stato e sul rispetto della volontà individuale.

Martina non è la prima a dover lasciare il proprio Paese per morire secondo i propri termini. Prima di lei, casi noti come quelli di Davide Trentini, Elena Sacchelli e Antonio, l’uomo tetraplegico noto per la sentenza che porta il suo nome, avevano già sollevato l’urgenza di un intervento normativo.

Eppure, ancora oggi, chi desidera esercitare il diritto a porre fine alla propria sofferenza è costretto ad affrontare un paradosso: per morire con dignità, bisogna spesso vivere un’agonia giuridica e amministrativa.

Il microcosmo del dolore

Nel suo videomessaggio, Martina ha saputo esprimere una verità universale con parole semplici e definitive: “Il macrocosmo è fatto da infiniti microcosmi, e ogni microcosmo ha un proprio dolore. Ogni dolore è assoluto nel momento in cui viene vissuto e va rispettato”.

La sua voce, oggi che si è spenta, continua a chiedere ascolto. Non più per sé, ma per tutti coloro che verranno dopo di lei. Il suo gesto non è stato una fuga, ma l’ultimo atto di libertà concesso fuori dai confini del suo Paese. La responsabilità ora è della politica italiana, che non può più sottrarsi all’obbligo morale di legiferare.

Perché nessuno, mai più, debba essere costretto a un “ultimo viaggio” per veder riconosciuta la propria umanità.

Nota: Tutte le informazioni e dichiarazioni sono tratte dai comunicati ufficiali dell’associazione Luca Coscioni e dai documenti pubblici disponibili al momento della stesura.

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