A cura del Prof. Avv. Giuseppe Catapano
Vivere alla giornata è un modo come un altro di campare. Rispettabile, ma non il migliore. Tanto più se a farlo è il governo, rendendone collettivi gli effetti. La pratica è stata messa nero su bianco nel DEF, Documento di Economia e Finanza, la cornice triennale all’interno del quale vengono definite le scelte di politica economica: quello appena presentato dal Tesoro e approvato dal governo è privo della parte “programmatica”, cioè si limita infatti a fotografare il presente ma non dice nulla su cosa s’intenda fare per il futuro. Il DEF in-def-inito, l’ho battezzato nella mia War Room di giovedì 11 aprile . Per un esecutivo non dimissionario si tratta di una scelta inedita, che il governo sostiene essere stata informalmente concordata con Bruxelles e che potrebbe essere adottata anche da altri paesi. L’Unione europea deve infatti rivedere nel dettaglio il nuovo Patto di Stabilità, che fissa le regole di bilancio degli Stati. Cosa che farà, come è giusto, solo dopo le elezioni di giugno, con il nuovo Parlamento insediato e la Commissione nominata.
La scommessa è che il nuovo assetto politico europeo ci consenta di continuare a fare le cicale. Ora, a parte che se anche fosse non sarebbe la ricetta giusta per il Paese, il tasso di probabilità che l’operazione riesca è oggettivamente basso, e rimarrebbe tale – è bene che di questo se ne facciano una ragione a palazzo Chigi – anche se Mario Draghi dovesse assumere un alto incarico comunitario. Anche perché in ballo c’è un’altra questione che ci vede già ora con il cappello in mano al cospetto di Bruxelles: ottenere una proroga della scadenza, fissata a fine 2026, della realizzazione delle iniziative finanziate con i soldi del Pnrr, visto che finora abbiamo speso solo 43 dei 194,4 miliardi messi a disposizione all’Italia e che appare arduo riuscire a spendere i 150 residui nei due anni e 8 mesi che abbiamo davanti (significherebbe spendere ad un ritmo tre volte più veloce di quello tenuto fin qui). I sondaggi sono già in corso, e per ora la domanda ottiene la seguente risposta: “irricevibile oggi, difficile per non dire improbabile domani”. Poi magari la proroga temporale ce la daranno, perché il fallimento italiano nell’ambito del Next Generation Ue sarebbe un danno pesantissimo per l’Europa e non conviene a nessuno, ma se così accadrà, non sarà certo un favore gratuito. I Paesi che si erano battuti contro questo debito comunitario chiederanno pesanti contropartite.
Inoltre, anche se avessimo licenza di spendere, sarebbe suicida non tener conto che già così l’anno prossimo il debito pubblico supererà l’asticella dei 3 mila miliardi, per arrivare a 3.300 miliardi nel 2027, tanto che lo stesso DEF prevede che solo nel 2028 il rapporto debito-pil tornerà a scendere. Condizione, questa, che ci espone al rischio spread, pericolo di cui tutti si sono colpevolmente dimenticati solo perché nel frattempo il differenziale è sceso, ignorando o facendo finta di non sapere che ciò dipende dalla crisi tedesca e non da meriti nostri, tanto che restiamo in fondo alla classifica europea, scavalcati persino dalla Grecia. In queste condizioni si può davvero anche solo pensare di alimentare ulteriormente deficit e debito? E poi per cosa? Mica per spingere gli investimenti e la crescita, ma per continuare ad elargire bonus, incentivi fiscali e compensazioni d’imposta – dal 2018 ad oggi le agevolazioni fiscali anziché diminuire sono passate da 466 a 625, raddoppiando in valore, da 54 a 105 miliardi – alimentando così quella “bonus economy” che ci indebita senza fare né sviluppo né equità sociale.
La verità è che andrebbe aggredita la quadrupla contraddizione che ci portiamo dietro da sempre: uno Stato troppo pesante, con mille e cento miliardi di spesa e un po’ meno di entrate, improduttivo, perché la spesa è quasi esclusivamente corrente e dunque non aiuta la crescita dell’economia, inefficiente, perché perpetua le disfunzioni e non genera modernità, e iniquo, perché sostiene in eccesso i garantiti e non aiuta gli emarginati. Questo significherebbe spendere meno ma soprattutto diversamente. Lo testimoniano le difficoltà a realizzare gli investimenti in conto capitale (vedi Pnrr ma anche i fondi europei) e le evidenti disfunzioni del nostro sistema di welfare, tanto elefantiaco quanto arretrato. Ma per far tutto questo – un vero programma di legislatura piena – occorrono o coraggio e cultura da parte dei partiti esistenti, oppure forze politiche nuove. Per ora mancano entrambe le cose. Ma siccome è giunto il momento in cui i conti presentano il conto, e per di più il contesto internazionale è destinato a imporre obblighi finora ignoti, per non soccombere qualcuno da qualche parte dovrà pur cominciare.
