2 Maggio 2024, giovedì
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Dopo Pasqua vivere la Pasqua 

A cura del Prof. Avv. Giuseppe Catapano

L’uomo fa fuori se stesso perché non riesce a sopportare la sua stessa mendicanza, la sua stessa sete irriducibile di bene, di bello, di giusto e di vero. Ma poi arriva il giudizio di Dio, la Sua ira per quello che abbiamo fatto, il Suo sdegno per come abbiamo trattato e sfigurato la Sua opera, il Suo dono, il Suo regalo.

Ciò che l’uomo odia e uccide, ciò che l’uomo maltratta e umilia, ciò di cui l’uomo si vergogna e nasconde, diventa uno spazio in cui si può abitare, diventa qualcosa che si può amare. Dove gli uomini vedono la morte, vedono la croce, Dio vede uno spazio nuovo, un sepolcro nuovo – che il testo evangelico descrive eloquentemente come un luogo in cui nessuno era mai stato – in cui iniziare una nuova avventura.

Ecco come è possibile amare se stessi, ecco come è possibile perdonarsi, ecco come è possibile ricominciare.

Allora la grande sfida della vita, l’unica vera libertà dell’esistenza, è tutta in questa scelta: continuare a guardare la nostra morte, la nostra capacità di morte – quello che noi abbiamo ferito, umiliato e ucciso – oppure volgere lo sguardo, come la Maddalena nel mattino di Pasqua, a quello che un Altro fa. Il giudizio non è dire cose, non è una valutazione da formulare a partire da certe argomentazioni o certi principi, il giudizio è un avvenimento, è un fatto che scegli liberamente di guardare perché introduce nella realtà uno spazio – una possibilità di vita – che un istante prima era assolutamente inconcepibile, assolutamente impossibile. E questo fatto non è qualcosa che puoi far tu, perché se lo facessi tu rimarresti per sempre col dubbio se quello che hai sperimentato è una cosa vera o un esito del tuo ingegno, un’autosuggestione che hai maturato in un momento di euforia, mentre il giudizio è qualcosa di irriducibile all’azione dell’uomo, qualcosa che entra nella storia, entra nella vita, e apre una prospettiva, uno spazio, una novità.

Normalmente i nostri giudizi non aprono nulla, ma chiudono, circoscrivono, condannano, problematizzano. Invece la Pasqua è la pietra del sepolcro che rotola, è quello che non ti aspetti, è la vita che fa capolino dove tu non avresti scommesso neanche venti centesimi. La Pasqua non è qualcosa che facciamo noi, ma è qualcosa che fa Dio, è l’opera di un Altro che manda a soqquadro la storia. E la cambia.

Così, mentre pensiamo all’Ucraina o alla Palestina, mentre ci interroghiamo sull’intelligenza artificiale o sulle nuove frontiere della nostra società, il giudizio non è quello che di acuto noi possiamo dire a partire da quello che sappiamo già, ma qualcosa di nuovo che accade a Gaza, una novità che si fa strada a Kiev, un fatto che ci costringe a guardare la scienza o la società da una prospettiva diversa. E questo vale anche per un matrimonio, per un lutto, per un tumore, per una scuola. Vale per un lavoro, per la Chiesa, per un nostro amico: il giudizio è la curiosità che ciascuno di noi nutre per Cristo, per la presenza di Cristo. Vivo e Risorto. Al punto che l’unità fra gli uomini non coincide con lo sforzo che possiamo fare per andare d’accordo su una certa cosa, non coincide semplicemente con una volontà, ma nasce dal guardare tutti allo stesso fatto, alla stessa cosa che c’è e che accade. Siamo figli dello stesso fatto e per questo ci chiamiamo cristiani.

L’unica speranza per Gaza e per Kiev, per questo nostro occidente impazzito, non è una qualche idea nuova, ma che qualcuno ricominci a guardare quel fatto, ricominci ad avere stupore e domanda per qualcosa che non ha realizzato lui, per qualcosa di nuovo che fa vita anche dove noi vediamo solo morte. Io mi posso guardare con amore, con simpatia, con misericordia, solo se c’è la Pasqua, solo se c’è la possibilità di una vita laddove dentro di me sperimento solo morte.

Dal mattino di Pasqua Cristo comincia a correre e ci precede in tutte le Galilee della nostra vita. Decidere di non perderlo di vista rimane, ancora oggi, l’unica rivoluzione che cambia tutto. Capace di rovesciare un impero, capace perfino di abbracciare l’abisso del mio Io.

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