25 Aprile 2024, giovedì
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Se la Commissione torna leader

Alle elezioni del Parlamento europeo potremmo per la prima volta esprimere la nostra preferenza anche per il prossimo presidente della Commissione europea grazie alla scelta delle principali formazioni politiche paneuropee di presentare un proprio candidato alla guida dell’esecutivo di Bruxelles. 

Commentatori e opinionisti si sono finora concentrati sugli aspetti più immediati e superficiali di questa novità. Con una netta prevalenza dei giudizi scettici o negativi. Da un lato, si evidenzia la futilità, per la democrazia europea, di questa innovazione politica, avendo la Commissione un ruolo sempre più defilato rispetto a quello del Consiglio. Dall’altro si mette in guardia contro i pericoli di un’eccessiva politicizzazione della Commissione, che ne minerebbe il ruolo di guardiana imparziale dei trattati.

Ciò che queste critiche paiono non (voler) cogliere, tuttavia, sono le conseguenze strutturali che la nuova procedura elettorale potrebbe avere sull’Ue, cambiandone gli equilibri politico-istituzionali e dunque anche il contesto analitico rispetto al quale la politicizzazione della Commissione deve essere letta e giudicata. 

Fermo restando che molto in questa trasformazione dipenderà da una serie di fattori che sono ancora poco chiari – in primo luogo quanto i partiti nazionali e i media sapranno trasmettere il significato e la portata della nuova procedura presso gli elettorati europei – gli effetti principali dell’elezione del presidente di Commissione si possono riassumere nel rafforzamento delle due principali istituzioni sovranazionali, ossia la stessa Commissione e il Parlamento, a scapito degli stati membri.

Testa a testa tra il Pse e il Ppe 
Il rafforzamento del Pe riguarderebbe, evidentemente, soprattutto la nomina del prossimo presidente di Commissione – un passaggio cruciale nella ridefinizione (o meno) del nuovo “assetto costituzionale” dell’Ue.

Il Trattato di Lisbona conferisce il potere di scegliere il presidente della Commissione congiuntamente al Pe e al Consiglio europeo: quest’ultimo propone un candidato (“tenendo conto” dell’esito elettorale) che sarà poi eletto dal Parlamento. 

L’avversione del Consiglio (e in particolare del suo membro più influente, la Germania) verso l’idea di un’elezione indiretta del presidente, che di fatto svuoterebbe il potere di proposta degli stati membri, è nota. Tuttavia è abbastanza improbabile che di fronte alla chiara vittoria di uno dei candidati, il Consiglio voglia aprire uno scontro con il Pe (e indirettamente con l’elettorato europeo), rifiutandosi di seguire le indicazioni delle urne. 

Il problema è che questa chiara vittoria con ogni probabilità non avrà luogo. Stando ai sondaggi, le elezioni saranno un testa a testa tra il Pse e il Ppe, in cui il partito vincitore potrà comunque vantare solo una maggioranza relativa di voti e seggi. 

Quasi sicuramente, quindi, il prossimo presidente di Commissione dovrà essere eletto da una coalizione, ed è probabile che questa sarà alla fine una grande coalizione con socialisti e popolari come maggiori (o soli) azionisti. 

Il Consiglio potrebbe essere tentato di approfittare di una situazione simile, proponendo un candidato terzo ed esterno alla competizione elettorale – cosa che finirebbe per annullare qualsiasi effetto della nuova procedura. Per il Pe e i partiti europei sarà dunque di vitale importanza tenere il punto sul candidato di maggioranza relativa, anche se lo scarto che lo separa dal secondo classificato, chiamato a fare un passo indietro, dovesse essere minimo. 

Legittimità del presidente della Commissione
Così eletto, il nuovo presidente di Commissione potrà contare su un grado di legittimità democratica senza precedenti nella storia dell’Unione che potrà a sua volta non solo renderlo più influente nella scelta dei restanti commissari e rafforzarlo nella guida del Collegio nel suo complesso, ma anche e soprattutto conferire alla Commissione maggiore autonomia e potere nell’esercizio delle sue funzioni di iniziativa legislativa ed esecuzione delle norme europee. 

Forte della legittimazione popolare, infine, il nuovo presidente potrà anche ravvivare quel ruolo più generale di leadership politica del processo di integrazione che la Commissione sembra aver perso negli ultimi anni.

Tutto ciò, sia chiaro, non è da leggere come un’improvvisa (nonché caricaturale) trasformazione della Commissione nel dominus dell’Unione. Anche nel migliore degli scenari possibili per la Commissione, gli stati membri continueranno ad avere un ruolo importante nella formazione e nell’applicazione delle norme europee, e diversi strumenti per far rispettare i propri diritti qualora questi siano violati. 

Ciò di cui si parla, piuttosto, è un riequilibrio tra poteri nell’Ue, nel quale la Commissione si sposterà dall’ibrido (tra segretariato internazionale, agenzia indipendente ed esecutivo federale) che rappresenta adesso, in direzione di un modello di governo tradizionale. 

Commissione partigiana?
Alla luce di tutto ciò, quella che rimane forse la critica più forte alla nuova procedura, ossia che essa genererà tensioni dovute alla nuova natura “partigiana” della Commissione, appare non tanto errata quanto mal posta. Quello che ci si deve chiedere, infatti, non è se sia opportuno avere una Commissione politicizzata a guardia dei trattati, ma piuttosto se siamo pronti ad accettare che la Commissione intraprenda questo cambiamento di natura verso un vero e proprio esecutivo.

Se la risposta è sì, molte delle obiezioni a una Commissione politicizzata si sgonfiano fino a diventare problemi per lo più tecnici di separazione tra funzioni di governo e garanzia che con mezzi altrettanto tecnici (come la creazione di agenzie indipendenti e maggiore trasparenza amministrativa) possono essere risolti. 

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