24 Aprile 2024, mercoledì
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Marò, cosa dice la Convenzione di Roma a proposito di lotta al terrorismo in mare

La Corte Suprema dell’India dovrà a breve pronunciarsi sulla legittimità della scelta di accusare i due fucilieri di Marina italiani sulla base del c.d. SUA Act, la legge di ratifica indiana della Convenzione per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima sottoscritta a Roma nel 1988, in vigore dal 1992. Questa Convenzione, ratificata sia dall’Italia che dall’India, si configura come un trattato internazionale multilaterale volto alla repressione di tutti e solo quegli atti illeciti compiuti contro la sicurezza della navigazione marittima e connotati da una matrice terroristica in ambito marittimo. La Convenzione di Roma trae origine dalla vicenda dell’Achille Lauro, in cui erano apparse chiare le lacune giuridiche sovranazionali in tema di tutela della sicurezza marittima. Difatti le distinte norme internazionali sulla repressione della pirateria, racchiuse nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, apparivano non assimilabili e inadeguate. La Convenzione di Roma si configura dunque come positivo esito settoriale di codificazione del diritto internazionale. Oggi l’importanza della Convenzione del 1988 è stata ribadita dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che, attraverso varie risoluzioni, nel contesto del contrasto internazionale alla risorta pirateria marittima, ha ritenuto legittimo il suo utilizzo purché solo nei confronti di atti terroristici violenti in mare e tali da porre in pericolo la sicurezza della navigazione o l’incolumità delle persone imbarcate. Questa precisazione è importante perché ne limita in maniera chiara il ricorso, a livello giuridico internazionale. La Convenzione di Roma impone dei doveri agli Stati firmatari tra cui l’obbligo giuridico, vincolante a livello internazionale, di individuare le pene più adeguate agli illeciti in essa previsti, tenuto conto della loro gravità. Le condotte illecite previste nella Convenzione del 1988 sono descritte nel suo articolo 3. Tra le varie fattispecie da incriminare si prevede che sia punito chiunque, illecitamente e intenzionalmente (quali prerequisiti indispensabili), commetta, tramite violenza, un atto violento nei confronti di una persona che si trovi a bordo di una nave, ove questo atto sia di natura tale da pregiudicare la sua sicurezza. Dovrà essere punito inoltre chiunque ferisca o uccida una persona, qualora tale fatto sia attuato commettendo una delle fattispecie previste nell’articolo in esame. In relazione all’obbligo internazionale per ogni Stato firmatario della Convenzione di Roma di recepire, con pene adeguate, nel proprio sistema penale interno gli illeciti in essa previsti, il legislatore indiano attraverso il c.d. SUA Act, la già ricordata legge interna di ratifica della Convenzione per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima, ha previsto in particolare nell’art. 3, c. 1, lett. g), par. i) la pena capitale per chiunque causi la morte di una persona a bordo di un’imbarcazione. A questa norma ha fatto riferimento la pubblica accusa indiana nell’imputazione prevista per i due soldati italiani, prediligendo tuttavia la scelta di derubricare l’incriminazione, in base a quanto previsto nella diversa lett. a) del medesimo articolo, in cui si prevede una pena fino a 10 anni di carcere per chi commetta un atto di violenza contro una persona a bordo di una nave. Su un piano di stretto diritto quindi la scelta indiana di applicare la Convenzione per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima, come trasposta nel proprio ordinamento interno, appare dubbia. L’opzione più efficace rimane quella di ricorrere al Tribunale internazionale del diritto del mare o a un arbitrato internazionale, in modo da garantire una maggiore imparzialità.

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