20 Aprile 2024, sabato
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RENZI “DEVE” FARCELA, UN SUO FALLIMENTO APRIREBBE UNA FASE BUIA DELLA NOSTRA DEMOCRAZIA

Voltiamo pagina. È inutile, in questa fase, stilare classifiche sui comportamenti di ciascuno, recriminare su ciò che non è stato e avrebbe dovuto essere, discettare sui motivi più o meno reconditi di certe mosse, scommettere sugli esiti dei nuovi scenari. Adesso c’è Renzi a palazzo Chigi. Punto. Poco importa se è veramente ciò che voleva o se, piuttosto, mirava alla crisi e ad andare a votare subito (con la legge elettorale riveniente dalla decisione della Corte Costituzionale sul “porcellum”), se è logico che chi come lui invoca la pienezza del maggioritario, anche a costo di proporre una legge che di democratico ha assai poco, arrivi al governo senza una tornata elettorale alle spalle, e se ha ben calcolato i rischi che assume rispetto alle dinamiche di un partito, il suo, che fino a poche settimane fa lo vedeva in minoranza e che ora sembra essere tutto renziano. Così come poco importa, anzi importa ancora meno, capire il perché Enrico Letta non sia riuscito in questi mesi a battere un chiodo che uno, o perché si sia illuso, nelle ultime ore, che la resistenza avrebbe pagato e che quella conferenza stampa per presentare un improbabile libro dei sogni sotto forma di programma di governo (peraltro personale, visto che non era stato concordato con nessuno) gli avrebbe consentito di uscire a testa alta dalla vicenda.

Lasciamoci tutto alle spalle. E ragioniamo su cosa significa per l’Italia il “governo Renzi” che fra poche ore nascerà. Noi, fatta la somma algebrica dei pro e dei contro, riteniamo che sia una chance. Che porta con sè, però, un grande problema: è l’ultima carta. Sì, sarà pure un jolly quello che ci stiamo giocando, ma è l’ultima carta che abbiamo in mano. Poi, per carità, la storia non finisce – con buona pace di Francis Fukuyama – ma certo è difficile immaginare cosa potrebbe succedere se, dopo lo scarso risultato di Monti e il fallimento (al di là dell’immaginabile) di Letta, pure Renzi dovesse inciampare. Anche perché gli italiani hanno caricato aspettative gigantesche sull’ormai ex sindaco di Firenze: a fronte di uno stato d’animo collettivo a dir poco sfiduciato, lui – giovane, dinamico, cinetico, aggressivo, dal linguaggio poco politico pur senza scadere nel populismo d’avanspettacolo grillino – ha suscitato e sta suscitando enormi attese. Anche chi non ha mai votato a sinistra, né lo farà perché c’è lui. Il desiderio che il tentativo riesca è generalizzato. E sincero. Ma, appunto, con un retrogusto che crea allarme in chi, come noi, non può ancorare l’analisi politica alla sola e generica “speranza”. È la percezione di un clima da “ultima spiaggia”, accentuato dalla tendenza di Renzi ad atteggiarsi come quello che “o la va o la spacca”. Insomma, il mood nel Paese è: speriamo che ce la faccia, perché in caso contrario non sapremo proprio a che santo votarci.

E allora, facciamo i conti fino in fondo con questa equazione, vedendo se e come ce la può fare, e ragionando fin d’ora su come affrontare – il ciel non voglia – un eventuale “dopo Renzi”. Partiamo dalle premesse positive. Renzi ha dalla sua il Paese – è vero, è capitato anche a Berlusconi un paio di volte, ma non con questa trasversalità e con l’anti-berlusconismo sempre in funzione – e la prospettiva di legislatura piena che si è voluto dare, tra l’altro cambiando le carte che lui stesso in precedenza aveva messo in tavola, che toglie al tentativo l’asfitticità che l’orizzonte temporale corto dava a Letta. Sono due vantaggi enormi, cui si aggiunge la condizione di un parlamento che, pentastellari a parte, starà comunque con lui, non fosse altro perché ha allungato a deputati e senatori la speranza di vita. Ma è un capitale facilmente deperibile. Per tenerlo vivo, Renzi come capo del governo dovrà fare l’esatto contrario di Letta: mettere di fronte al fatto compiuto, mostrare decisionismo – vero, non a chiacchiere – per evitare la logica della mediazione preventiva sui provvedimenti. I quali dovranno sì rispondere alla logica del “colpo di reni” e non più dei piccoli passi come si era (inspiegabilmente) intestardito a fare Letta, ma senza per questo lasciarsi prendere la mano dal desiderio di stupire a tutti i costi. Insomma, leadership vera, non un suo surrogato mediatico (lì per lì funziona, ma dura poco). Per riuscirci, Renzi dovrà avere due squadre: quella di governo, necessariamente figlia degli equilibri politici e nella quale sconsigliamo inserimenti mediaticamente paganti ma che potrebbero facilmente rivelarsi dei boomerang; e quella sua, fatta di consiglieri politici capaci di elaborare dossier e gestire relazioni.

Si può fare? È difficile, ma si può fare. Anche perché a Renzi una seconda chance non verrebbe data. E perché, in caso di suo fallimento, il Paese piomberebbe in una cupa disperazione da impotenza che rischierebbe di aprire la porta a fenomeni di ribellione al cui confronto i “vaffa” di Grillo e le manifestazioni dei “forconi” risulterebbero delle alzate di sopracciglia. La politica non è e non può essere solo Renzi. Ma ci vuole il tempo per costruire una nuova generazione di uomini e donne capaci di assumersi la responsabilità di guidare l’Italia fuori dal declino. E a Renzi andrà fatto un monumento se solo sarà capace di dare al Paese questo tempo.

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