19 Aprile 2024, venerdì
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Hillary alla conquista della Casa Bianca

La recente notizia che il più grande comitato elettorale americano vicino ai democratici, Priorities Usa, ha iniziato a raccogliere fondi per Hillary Clinton ha sciolto gli ultimi dubbi sul fatto che il partito stia compattamente puntando sull’ex segretario di Stato per le presidenziali 2016.

Una così ampia convergenza verso un candidato, con tanto anticipo rispetto alle elezioni, non si era mai registrata nella storia politica americana: il fatto che anche Jim Messina, ex capo della campagna di Barack Obama, sia da poco diventato vicepresidente di Priorities Usa pro Hillary la dice lunga sul doppio filo che ormai lega l’ex first Lady al presidente in carica. Le personalità che si stanno mobilitando su questo fronte si moltiplicano a vista d’occhio.

La candidatura della Clinton solleva però anche molte perplessità. Sia per l’effetto dejavù – in un paese che ama i cambiamenti – rispetto alla presidenza di Bill (1992-2000), sia perché rispetto allo stile di Obama gli attuali 66 anni di Hillary appaiono troppi, soprattutto nella prospettiva degli otto anni di presidenza. I suoi fedelissimi replicano però che, se eletta, la Clinton entrerebbe in carica alla stessa età di Ronald Reagan (69), uno dei presidenti in assoluto più amati degli Stati Uniti.

Costruzione sapiente
La compattezza di oggi sul nome di Hillary è il punto d’arrivo, per nulla scontato, di un paziente lavoro di rifinitura politica che non si è mai interrotto. A partire dalla saggia e non semplice scelta, all’indomani della bruciante sconfitta alle primarie 2008, di accettare l’incarico di segretario di Stato. Con un chiaro disegno: accrescere il suo profilo politico e internazionale e recuperare sintonia, grazie a lealtà e intesa con Obama, con quella parte dell’elettorato (democratico e non solo) cui Hillary risultava ancora visceralmente invisa.

Un’operazione perfettamente riuscita, se è vero che al momento delle sue dimissioni dal dipartimento di Stato, nel 2012, la Clinton aveva raggiunto una popolarità interna del 69% (la più alta nell’arco dei ventuno anni in cui ha calcato la scena nazionale) e ottenuto attestati di stima da ogni angolo del mondo.

Dopo aver percorso, in quattro anni, oltre un milione e mezzo di chilometri attraverso 112 paesi e 401 giorni di missione all’estero, nessuno osava negare a Hillary il diritto a una siesta. Le dimissioni dalla Segreteria di Stato, concordate mesi prima con il presidente, sono però suonate anche agli osservatori più distratti come un’abile mossa per smarcarsi da Obama in preparazione del 2016.

Un incarico così totalizzante non le avrebbe consentito, infatti, di consolidare un profilo politico più autonomo e non da gregaria. Non si può escludere, per altro, che proprio la politica estera possa diventare, per Hillary, terreno d’elezione per marcare distinguo più netti da Obama, soprattutto alla luce delle non poche incertezze strategiche da lui palesate su importanti dossier.

Usa pronti per una donna?
Anche se è vero che solo il completo superamento dei problemi di salute che ha avuto negli ultimi mesi da segretario di Stato, e sulla cui esatta natura è sceso il più marmoreo riserbo, potrebbe consentire alla Clinton di affrontare l’estenuante maratona delle presidenziali.

La vera sfida di fondo con cui Hillary (o qualunque altra donna candidata) dovrà misurarsi nuovamente è però di carattere più profondo e attiene prevalentemente alla sfera socioculturale. Nonostante lo straordinario livello di emancipazione che le donne hanno conquistato nella società americana, infatti, la figura del presidente degli Stati Uniti rimane ancora incardinata in una simbologia sostanzialmente maschile: dal comandante in capo, al padre della patria fino a quello, integerrimo, di famiglia, il presidente è sempre stato un uomo.

Nel 2008, non a caso, attacchi durissimi contro Hillary si sono levati, anche ben oltre la sfera politica, da settori fino a quel momento insospettabili della società americana. Se è vero che gli americani votano con la testa rivolta al conto in banca, questo aspetto culturale e un po’ impalpabile svolgerà certamente un ruolo non secondario, anche se molto meno esplicito di altri.

Dopo aver violato il tabù del primo afroamericano alla Casa Bianca, gli Stati Uniti del dopo crisi saranno finalmente pronti ad eleggere una donna? A decidere saranno, ancora una volta, soprattutto la strategia e la politica. Ma le carte, per il momento, sembrano tutte nelle mani di Hillary.

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