Fatti salvi i partner delle divise sportive di ogni nazione, che da Armani per l’Italia, Bogner per la Germania, Ralph Lauren per gli Usa, Lacoste per la Francia o H&M per la Svezia hanno acceso i riflettori sulle griffe simbolo di ogni paese, c’è stata molta prudenza in questi ultimi giorni a parlare di marketing e strategie associate ai Giochi olimpici invernali di Sochi 2014. I più cari della storia in quanto a organizzazione (sono stati spesi 50 miliardi di dollari, ovvero 37 mld di euro), ma anche i più ricchi di incognite sui ritorni d’immagine dei brand coinvolti e sull’interesse da parte del pubblico.
La cittadina sul Mar Nero completamente trasformata dall’evento è da ieri vetrina degli sponsor ufficiali (per gran parte americani), tali sono fra gli altri Coca-Cola, McDonald’s, Atos, Dow, Ge, Procter & Gamble, Samsung, Panasonic, Omega e Visa. Per gli altri le regole della pubblicità parlano chiaro: nemmeno gli atleti possono accreditare marchi che non paghino, o in qualità di sponsor o in qualità di partner, il loro ticket all’organizzazione. Ora il timore, anche tra chi ha investito milioni sui giochi, una spesa stimata solo per gli Stati Uniti in un miliardo di dollari (circa 734 milioni di euro) per fare spot, apparire durante le competizioni o l’inaugurazione di ieri, è che più che le gare, tengano banco come nell’ultimo mese i problemi legati al terrorismo, i diritti umani (dovuti alle leggi russe contro i gay), o le azioni di boicottaggio.