18 Aprile 2024, giovedì
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Venti chili di esplosivo per far saltare Ingroia

Lucio Musolino Reggio Calabria Venti chili di esplosivo per Antonio Ingroia. Cosa Nostra e ‘ndrangheta insieme per fermare l’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Nel 2011 le famiglie mafiose di Agrigento stavano progettando un attentato in grande stile contro l’ex procuratore aggiunto di Palermo che stava indagando sulla strategia eversiva che, agli inizi degli anni Novanta, ha tenuto sotto scacco il Paese. A sventare l’attentato è stato un collaboratore di giustizia di Reggio Calabria, Marco Marino, che sta scontando una pena all’ergastolo per l’omicidio di una guardia giurata. Ha salvato la vita a Ingroia raccontando ai magistrati della Dda di Palermo cosa ha visto e sentito dentro il carcere Pagliarelli nei mesi a cavallo tra il 2010 e il 2011. MARINO ENTRÒ in contatto con alcuni mafiosi siciliani. Tra questi i fratelli Agrò, punto di riferimento dei boss di Agrigento. Usurai per conto di Cosa Nostra e con una condanna all’ergastolo per omicidio, i due avevano subìto pochi mesi prima un maxi-sequestro di beni per circa 50 milioni di euro. “Nel carcere di Palermo sono stato detenuto con tale Agrò di Agrigento – dice il pentito Marino al sostituto procuratore della Dda di Reggio Giuseppe Lombardo – il quale mi disse che aveva bisogno di esplosivo”. “Per cercare di tenerlo buono, – racconta il collaboratore – gli dissi che ero in grado di procurargli quello che mi aveva chiesto. Ovviamente non ho fatto nulla di tutto ciò. L’esplosivo serviva per un attentato ai danni di un magistrato della Dda di Palermo. Voglio precisare che il magistrato che l’Agrò voleva uccidere era il dottore Ingroia. Queste circostanze, unitamente ad altre, le ho già riferite alla Dda di Palermo nel 2010-2011”. Invece di avvertire le cosche reggine, come avrebbero voluto i boss agrigentini, il pentito informò una guardia penitenziaria in servizio al Pagliarelli. Questa avvertì la Dda di Palermo che, per due volte, si recò in carcere da Marco Marino il quale confermò ai magistrati le confidenze ricevute dai siciliani. Appurata la fondatezza del pericolo di vita per il procuratore aggiunto, la Distrettuale giocò d’anticipo e fece trasferire gli Agrò e gli altri mafiosi di Agrigento in diverse carceri italiane in modo da interrompere i contatti tra loro e non consentire a Cosa nostra di portare a compimento il disegno criminale. Ingroia ricorda il progetto di attentato: “Fui informato dai colleghi che interrogarono Marino ma, trattandosi di un’indagine in cui io ero parte offesa, l’incartamento venne trasmesso alla Procura di Caltanissetta che non mi ha mai convocato o sentito. Dell’inchiesta non ho saputo più nulla. E questo mi ha sempre stupito”. INGROIA FORNISCE anche una sua chiave di lettura: “In quegli anni stavo coordinando l’inchiesta sulla trattaviva Stato- mafia. In quel periodo mi accaddero cose che oggi vedo ripetersi nei confronti di altri colleghi. Lettere anonime e strane irruzioni come quella in casa del collega Tartaglia dove pare non abbiano rubato niente di prezioso. Sicuramente rovistarono tra le sue carte. Non so se è mancato qualcosa ma non erano ladri. Ricordo un episodio avvenuto a Roma ai danni di Orazio Licandro, ex deputato e componente della commissione antimafia. Ci eravamo incontrati e, subito dopo, qualcuno aveva rovistato nella sua stanza di albergo dove furono rubate pen drive e un computer. Pensavano che io avessi dato documenti a Licandro”.“Qualcuno mi pedinava. Perché la ‘ndrangheta avrebbe avuto interesse a uccidere uno come Ingroia? “Al progetto eversivo delle stragi del ’92 e del ’93 erano interessati anche i calabresi – risponde l’ex magistrato –. Come i siciliani, pure loro hanno tutto l’interesse affinché non si faccia luce sulla trattativa”.

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